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Come rifare l’Unione europea

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In questi giorni, si celebrano i sessanta anni dalla firma dei Trattati di Roma e dell’inizio di un percorso che sino a tempi recenti ha assicurato non solo pace ma anche prosperità al continente vecchio.

Quando vennero firmati i Trattati avevo quindici anni e con i miei compagni di scuola vivevo un’epoca di grandi speranza: dei Trattati vedevamo principalmente la dimensione liberale e liberista, ossia l’apertura dei mercati e le libertà di circolazione di persone e cose e di stabilità delle aziende. Non immaginavamo che il piccolo nucleo di sei Stati dell’Europa in fase di integrazione sarebbe cresciuto sino a diventarne ventisette (ventotto se si conta anche la Gran Bretagna ora in via di uscita). Vedevamo commerci ed economie più liberi affinché ciascuno di noi fosse più libero. Sognavamo l’Europa federale di Colorni, Hirschmann. Rossi e Spinelli del Manifesto di Ventotene. Soltanto un anno più tardi (nel luglio 1958) con il varo della politica agricola comune, l’Europa a sei perse parte dell’afflato liberale e diventò sempre più interventista e sempre più complessa; nel primo libro che scrissi (L’Europa ed il sud del mondo, Il Mulino, 1968) lo sottolineavo con l’auspicio che si sarebbe presto tornati a concezione liberal-liberista dell’integrazione europea. Invece in modo quasi strisciante, ha prevalso un approccio dirigista, anche a ragione del “metodo Monnet” di passi “irreversibili” verso un’Europa sempre più integrata; di questi passi il principale, e più controverso, è stata l’unione monetaria che ora lega i diciannove Stati dell’Unione europea.

Non è certo questa la sede per narrare la strada fatta, i successi ottenuti, le difficoltà e le problematiche dell’Unione. Alla vigilia delle celebrazioni, però, occorre chiedersi se l’aver abbandonato l’afflato liberal-liberista del 1957 di un “federalismo competitivo”(Angelo Maria Petroni, Roberto Caporale, Il federalismo possibile: un progetto liberale per l’Europa, Rubettino, 2000) non abbia avuto costi molto elevati e non sia stata una delle determinanti del rallentamento della crescita che ha caratterizzato in varia misura l’Unione e la sua economia negli ultimi dieci anni.

In un processo di “federalismo competitivo”, i vari Stati che lo compongono, competono tra loro (nel senso etimologico di cum petere, cercare insieme) per trovare le soluzioni migliori per un’Unione, una confederazione o una federazione più moderna e più giusta. Tra i molti che lo avevano invocato, occorre ricordare, Frank Vibert, della London School of Economics (nonché allora presidente dell’European Policy Forum) e il suo Europe Simple Europe Strong: The Future of European Governance (Polity, 2001), un libro lungimirante, che purtroppo non hai mai trovato un editore pronto a farlo tradurre in italiano e distribuire nel nostro Paese. Il libro preconizza un’Unione che secondo l’ultimo libro di Vibert (The Rise of Unelected Democracy and the New Separation of Powers Cambridge University Press 2007) aspira a forme di democrazia non elettiva.

La direttrice per il percorso da seguire dopo le celebrazioni di rito è stata già segnata nel Consiglio dei capi di Stato e di governo dell’Unione, riuniti a Bruxelles il 9 e 10 marzo. In quell’occasione, hanno tirato fuori dal cappello un’idea già anticipata dalla riunione dei “grandi” (Germania, Francia, Italia e Spagna, ora che la Gran Bretagna è sulla via uscita) tenuta a Versailles pochi giorni prima. L’idea è quella “dell’Europa a più velocità”. Non è una cattiva idea ma non brilla neanche per originalità e innovazione. Dubito che sia quella che potrà rilanciare il progetto europeo. Dato che da alcuni decenni l’Unione marcia a più velocità; le varie “cooperazioni rafforzate” (dall’accordo di Schengen al Trattato di Maastricht) altro non sono che intese per viaggiare a passi differenti verso l’obiettivo comune dell’integrazione europea.

È una proposta realistica, ma è già in atto. E non semplice da coniugare  con le pulsioni federalistiche che si pensava avrebbe dovuto essere il tema conduttore delle celebrazioni del 25 marzo e avrebbero dovuto anche fornire il contesto per risolvere temi e problemi scottanti sul tappeto (migrazioni, diseguaglianze, prosecuzione o meno di politiche monetarie non convenzionali). Neanche  con quelli a medio e lungo termine (del ruolo dell’Unione in un mondo globalizzato in cui il suo partner tradizionale, gli Stati Uniti, che molto si è speso nei primi anni del suo cammino, sembra allontanarsi da un continente che mostra segni di senescenza).

Sono anni in cui l’Unione è una cornice di regole di base all’interno della quale si creano gruppi più piccoli con regole specifiche e più dettagliate; tali gruppi dovrebbero essere più omogenei e dotati di più chiare finalità puntuali. Delle varie “cooperazioni rafforzate” la più importante, e la più complessa, è l’unione monetaria, una “cooperazione rafforzata” in cui forse si è fatto un passo più lungo della gamba e ora si è alle prese con nodi di difficile soluzione. È anche quella più problematica perché è nata nell’urgenza delle conseguenze  del crollo del Muro di Berlino e della preoccupazione, principalmente francese, della tenuta dell’accordo del Louvre franco-tedesco sui cambi (una cooperazione “rafforzatissima” all’interno della “cooperazione rafforzata” unione monetaria). È  stata quindi istituita prima che ce ne fossero i presupposti per andare verso un’area valutaria ottimale.

Sono tensioni non solo contingenti e di breve periodo (come quelle sul mantenimento o meno del Quantitave Easing a fronte di un ritorno dell’inflazione e della possibile ripresa della crescita) ma anche strutturali. Ad esempio, nello  studio  quantitativo (di cui non si parla in Italia anche perché disponibile unicamente in versione preliminare su supporto magnetico) di Markus Ahlborn e Marcus Wortmann, della Georg-August Unversitaat di Gottigen Output Gap Similarities in Europe: detecting country groups (Somiglianze nell’output gap in Europa: individuare gruppi di Paesi analoghi),  la sincronizzazione dei cicli diventa il metro, uguale per tutti, per stimare l’output gap (il differenziale tra Pil potenziale ed effettivo). Applicando la metodologia statistica a 27 Paesi (i 28 dell’Unione meno Cipro, Malta e Lussemburgo, più Norvegia e Svizzera) e utilizzando i  dati trimestrali del Pil dal primo trimestre 1996 al quarto trimestre 2015, lo studio identifica un gruppo centrale (core) di ciclo economico europeo, ossia di Paesi che si muovono alla stesso passo e che quindi costituiscono un’area omogenea.

Questi sono i Paesi strettamente collegati alla Germania come Danimarca, Svezia, Svizzera e il Regno Unito, il Benelux, nonché la Repubblica Ceca, la Polonia e l’Ungheria (tre Stati che secondo l’analisi sarebbero pronti ad adottare l’euro). Il core avrebbe alcuni dei presupposti di un’area valutaria ottimale e potrebbe costituire un’unione monetaria, anche se alcuni dei suoi Stati non fanno parte dell’Unione. Secondo questa analisi, nel periodo 1996-2007, l’Italia era prossima al core, ma se ne è distaccata in misura significativa successivamente. Se non effettuerà riforme economiche drastiche, se ne distanzierà ancora di più. Aumentando le proprie difficoltà in materia sia di debito e finanza pubblica sia nel sociale (occupazione, diseguaglianze), proprio in una fase in cui l’unione monetaria è diventata il parafulmine di  tutto il malcontento nei confronti dell’Unione, delle istituzioni e delle sue regole generali di base.

Per questa ragione avrei trovato più sensato tirare fuori dal cappello del Consiglio europeo idee su come raddrizzare la più importante delle “cooperazioni rafforzate”, l’unione monetaria, senza che nessuno dei partecipanti si faccia troppo male.

Oppure andare verso un disegno più vasto. Quale quello delineato da Roberto Caporale nel suo recente libro Exeunt: la Brexit e la fine dell’Europa (Rubettino, 2017): un’Europa in cui la sovrapposizione di aree di azione collettiva realizza un impianto adattivo con istituzioni centrali forti nel loro ruolo primario di assicurare il rispetto dei principi e delle norme che realizzano uno spazio di mercato libero e aperto.

Per raddrizzare l’unione monetaria, è utile ricordare che nell’ambito dell’Unione, sta operando un gruppo di lavoro sulla revisione del Fiscal Compact. Secondo le voci che corrono nei principali ministeri delle capitali di maggior peso, e ovviamente, a Bruxelles, l’idea di base sarebbe quella di rendere il Fiscal compact più flessibile, ma anche d’incorporarlo nel Trattato di Maastricht.

È un’ottima occasione sia per rivedere i parametri di Maastricht (non perché definiti stupidi da Romano Prodi, ma perché non hanno retto alla prova di circa un quarto di secolo di esperienza) sia per riformare la basi stesse dell’unione monetaria. Non è detto che l’unione monetaria sia, nella forma attuale, “irreversibile”, come ripete il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi. Nei secoli ci sono state unioni monetare che si sono dissolte quando le divergenze dell’andamento delle economie reali dei suoi Stati membri ne hanno fatto crollare i tessuti connettivi di base. Dopo la Seconda guerra mondiale, una quindicina di unioni monetarie si sono dissolte, di queste una si è ricostituita (dopo trent’anni dalla dissoluzione) e una sola (quella dell’Unione Europea) è stata creata. Il nodo centrale non è se l’unione monetaria europea sarà “irreversibile” ed “eterna” o meno (nulla di umano lo è) ma come farla reggere o in caso di scioglimento evitare traumi troppo forti, ossia di farsi inutilmente male.

A mio avviso, occorre mettere in atto un sistema monetario simile a quello di Bretton Woods. Si può fare senza tornare alle vecchie monete nazionale: su ciascun euro è indicata la banca centrale nazionale che lo ha emesso e, quindi, sotto il profilo tecnico non è difficile tornare a un accordo sui cambi (quale quello colloquialmente chiamato Sme) utilizzando come “parità centrali” quelle adottate nell’istituzione dell’euro. Perché ciò non sia l’anticamera della dissoluzione dell’euro, però, sono necessari altri due elementi: trasformare la Banca centrale europea in un’istituzione simile al Fondo monetario internazionale che monitori non questo o quel parametro, ma le politiche degli Stati membri e intervenga in modo fattivo, e finanziario, per shock di breve periodo e un’espansione del ruolo della Banca europea degli investimenti nel suo supporto agli Stati meno sviluppati.



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