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Corea del Nord, come disinnescare la mina (nucleare) vagante

nucleare, corea

Di solito, le vicende nordcoreane trovano spazio nelle pagine del folklore piuttosto che in quelle della cronaca internazionale. Però nelle ultime settimane abbiamo ricevuto alcuni chiari avvertimenti che il regime di PyongYang rischia di arrivare sulle prime pagine. Kim Jong-Un è un dittatore tanto pazzo quanto imprevedibile e controlla un Paese dotato di armi nucleari in uno dei punti più caldi del globo fra Cina, Giappone, Corea del Sud e Russia.

Il Paese – guidato durante la guerra con il Sud e con gli americani dal leggendario Kim Il-Sung e poi lungo la guerra fredda dal diplomatico Kim Jong-Il – dal 2011 è in mano alla terza generazione Kim, rappresentata da un ragazzotto obeso con delirio di onnipotenza. L’ufficio propaganda nord coreano ha capito molto bene che ora – se vuole impressionare il popolo e dare risalto alle gesta del supremo leader anche all’estero – deve ogni volta superare se stesso. Poco importa se le notizie riportate siano vere o false.

Per questo, nel 2011 il viceministro dell’esercito è stato ucciso con un colpo di mortaio per non aver rispettato il lutto in seguito alla morte del padre di Kim. Nel dicembre 2013 il dittatore ha fatto sbranare dai cani il suo mentore politico Jang Song Thaek a causa del suo “stile di vita decadente e capitalista”. Poi, col veleno, la moglie di Jang Song (e zia di Kim stesso) nel maggio 2014 perché protestava per l’assassinio del marito. Il mese prima il viceministro della pubblica sicurezza O Sang-Hon era stato eliminato col lanciafiamme. Nell’aprile 2015 ha fatto giustiziare il ministro della difesa Hyon Yong Chol con armi antiaeree per averlo beccato addormentato durante una riunione. Non è confermato – ma lo stile sembra inconfondibile – che Kim Jong-Nam, fratellastro del dittatore, sia stato ucciso il mese scorso proprio per ordine di Kim con uno spray altamente velenoso basato sull’agente nervino VX nell’aeroporto di Kuala Lumpur.

Ma la cronaca nera viene sapientemente alternata con altre notizie (sempre di dubbia verificabilità) più adatte a una rivista di pettegolezzi: l’obbligo per tutti di avere i capelli tagliati secondo uno dei 28 stili approvati dal dittatore, le libere elezioni a suffragio universale in cui Kim è il suo partito sono gli unici presenti sulla scheda (a dire il vero questa l’aveva inventata Mussolini), il fuso orario di PyongYang che differisce per mezz’ora sia da quello di Seoul che da quello di Tokyo, lo smartphone autarchico “Arirang-Pyongyang Touch” (in realtà un clone cinese rebrandizzato), il miracoloso farmaco Kumdang-2 in grado di curare Aids, Ebola e pure il cancro – e per la cronaca rosa – l’elezione all’unanimità di Kim come “uomo meglio vestito della Corea del Nord” per il sesto anno consecutivo.

Meno appetibili per i media sono, invece, le notizie di routine, come le migliaia di concittadini giustiziati in modo più tradizionale e silenzioso o i duecentomila disgraziati che, si stima, si trovano ai lavori forzati nei sei enormi campi di concentramento destinati ai nemici della patria.

Più preoccupanti per tutto il mondo sono, invece, i lanci di missili balistici intercontinentali sapientemente alternati con test nucleari sotterranei. La combinazione di queste due notizie, sempre sincronizzate su importanti feste nazionali tanto da risultare esattamente prevedibili, ha invariabilmente ampia eco sui media internazionali.

Le stesse notizie vengono sistematicamente ridicolizzate dagli analisti scientifici e militari. Questi fanno a gara nello scoprire fotomontaggi, palesi incongruenze tecniche e immagini satellitari che smentiscono la propaganda ufficiale.

È chiaro che i principali risultati immediati che si aspetta Kim Jong-Un restano, per ora, solo diplomatici. Scambiare accordi per rallentare il proprio programma nucleare in cambio di relazioni internazionali. Fare percepire al proprio popolo che la Corea del Nord siede al tavolo delle grandi potenze nucleari e rafforzare la propria leadership terrorizzando, al contempo, gli oppositori.

Ma sembra altrettanto evidente che quando un Paese al duecentoundicesimo posto al mondo per prodotto interno lordo (1.800 $/anno; quello dei vicini del Sud è 37.900) destina la maggior parte delle proprie risorse verso le spese militari e – in particolare – verso i missili e verso le armi nucleari, l’obiettivo non può essere esclusivamente propagandistico.

Le spese militari nordcoreane hanno sempre seguito una linea di sviluppo strategico tutt’altro che irrazionale. Già il fondatore Kim Il-Sung aveva capito l’importanza del nucleare bellico e aveva promosso la creazione del Centro Ricerche per l’Energia Atomica nel 1952, seguito quattro anni dopo dalla fondazione dell’Istituto Congiunto Nordcoreano-Sovietico per la Ricerca Nucleare e, infine, dalla realizzazione – nei primi anni ’60 – del complesso per la ricerca nucleare di YongByon nella provincia del North Pyongan. Quest’ultimo includeva il reattore nucleare sperimentale sovietico IRT-2000 per la produzione di radioisotopi.

Le armi nucleari rappresentano un’ottima polizza assicurativa contro i rischi di rovesciamento del regime: nessuno Stato appoggerebbe alla leggera una opposizione rivoluzionaria (o golpista) interna col rischio di provocare una conflagrazione nucleare. Fatte salve le denunce delle organizzazioni umanitarie, gli oppositori interni vengono generalmente lasciati al proprio destino.

Ma le atomiche sono anche un modo per mantenere l’obiettivo strategico di conquistare la Corea del Sud grazie a una costante dimostrazione di forza militare dove le armi nucleari sono il complemento di un esercito forte di oltre un milione di uomini cui si aggiungono oltre sei milioni fra riserva e personale paramilitare. La spesa militare complessiva è stimata in circa 10 miliardi di dollari, pari alla cifra record del 25% del prodotto interno lordo (al Sud è il 2,7%).

Sarà interessante osservare come il nuovo inquilino della Casa Bianca si relazionerà con il supremo leader nordcoreano.

Ormai è chiaro che con Kim non si può trattare, come hanno tentato di fare in passato vari presidenti americani. Né la “Dichiarazione Congiunta sulla Denuclearizzazione” di George H. W. Bush padre nel 1992, né “l’Accordo Quadro” di Bill Clinton nel 1994, né i “Colloqui a Sei” di George W. Bush figlio nel 2004 e nemmeno la politica di “pazienza strategica” di Barack Obama hanno ottenuto risultati concreti se non una accresciuta visibilità per i leader nordocoreani: potevano così dimostrare all’esterno ed all’interno di poter trattare alla pari con le superpotenze. È stata la dimostrazione che gli accordi con regimi autoritari sono sempre scritti sulla carta … igienica.

Le prime mosse di Trump sullo scacchiere coreano non promettono nulla di buono per la pace nella regione. Considerati esauriti gli spazi di trattativa, sembra passato decisamente all’uso delle pressioni militari per contrastare il regime di Kim sul suo stesso terreno. In questa ottica si può leggere il previsto dispiegamento del sistema antimissile balistico THAAD in Corea del Sud così come la pianificazione di sistemi di intercettazione sulla costa occidentale degli Usa che andrebbero a rafforzare l’esistente sistema antimissile Aegis basato su piattaforme marittime. Ma pare logico immaginare che Kim non ne sarà certo intimidito. Al contrario, queste manifestazioni di forza non faranno altro che contribuire alla strategia di comunicazione del regime: potrà così sostenere con elementi concreti lo storytelling (ora si usa dire così) che vuole la Corea del Nord circondata da forze ostili pronte ad annientarla.

Come ho suggerito ormai un anno fa proprio qui su Formiche.net, la via probabilmente efficace per disinnescare questa mina (nucleare) vagante può passare, invece, per un’altra strada. Si tratta di staccare letteralmente la spina al regime tagliando i rifornimenti di un Paese che è dipendente quasi esclusivamente dall’estero per il proprio fabbisogno energetico.

La Nord Corea, infatti, non produce gas e petrolio ma lo importa interamente dall’estero insieme a buona parte del carbone. Inoltre, produce energia elettrica per metà dal petrolio estero e solo per l’altra metà da impianti idroelettrici locali. Il 76,4% delle importazioni (combustibili fossili, macchinari, tessuti e grano) provengono dalla Cina, mentre il secondo canale è rappresentato dal Congo con un insignificante 5,5%. Sempre verso la Cina vanno il 75,8% delle esportazioni (minerali, metalli, materiali, prodotti agricoli e pesce). Il suo debito verso l’estero (ancora una volta quasi esclusivamente verso la Cina) è pari a 5 miliardi di dollari.

Buona parte di questi commerci avvengono sul mercato nero tramite compagnie di comodo che aggirano le sanzioni internazionali in essere contro il regime di PyongYang. Recentemente sono state individuate ben 562 strutture nel mondo “con un solo grado di separazione” rispetto alla Corea del Nord.

In conclusione, è evidente che i trattati diretti si sono dimostrati inutili. È altrettanto chiaro che l’attuale escalation militare americana rischia proprio di innescare l’esplosione che si sta cercando di evitare.

L‘unica strada percorribile – e forse la più efficace – è proprio quella di esercitare una combinazione di pressioni e di incentivi diplomatici ed economici non verso la Corea del Nord ma verso la Cina: il principale Paese che commercia con PyongYang e che ne mantiene in vita il regime.

Ora che i cinesi stanno aspirando a diventare i campioni mondiali del capitalismo e del commercio globale, la scomoda alleanza con l’imprevedibile supremo leader diventa per loro sempre più imbarazzante.

Lo strangolamento del regime nordcoreano non sarà certo incruento. Andrà opportunamente coordinato non solo con la Cina ma almeno anche con Russia, Giappone e Corea del Sud. Andrà preparato con un intenso lavoro di intelligence e di sostegno alle organizzazioni clandestine contrarie al regime – soprattutto tra i militari. Per minimizzare le sofferenze di una popolazione già stremata, andrà preparato un governo ombra pronto a prendere il potere ed a completare la transizione nel modo più rapido possibile



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