Francesco è il Papa porteño che parla di Europa e parla all’Europa. Però nel suo centro mai è andato. Ha visitato le istituzioni europee, ma non le sue città. Ha ricevuto due volte i leader dell’Unione europea, ma ne ha schivato le capitali. Di fronte a un cuore sclerotizzato dalla burocrazia, Bergoglio in quattro anni ha accuratamente evitato di viaggiare nei capoluoghi del vecchio continente. Per rimetterne in moto il nucleo lo ha circumnavigato. Nella sua analisi è dai confini che sola può arrivare la scossa per rialzare quella che chiama “l’Europa nonna”, “non più fertile e vivace”. Così era, fino al viaggio a Milano. Dove si è rivolto a un popolo chiamato “a ospitare le differenze, a integrarle con rispetto e creatività”. A un popolo che ha invitato a non avere “paura di abbracciare i confini e le frontiere”. Che ha sfidato “a dare accoglienza a chi ne ha bisogno”.
IL PERNO DEL COMPASSO
Il suo pellegrinaggio apostolico è iniziato a Lampedusa pochi mesi dopo l’elezione. Il “perno del compasso con cui Francesco ha ruotato e orientato l’asse diplomatico della Santa Sede”, per usare l’immagine di Piero Schiavazzi sulla rivista Limes. Nel raggio europeo si toccano solo i confini di quel giro di compasso. Albania (2014) e Bosnia Erzegovina (2015). Quindi, nel 2016, il trittico di paesi dell’Unione. Ad aprile è in Grecia. Va nell’isola di Lesbo, ma ci va per i profughi e nel segno dell’ecumenismo del servizio, insieme al patriarca ortodosso Bartolomeo, il successore di Andrea, fratello di Pietro. In luglio è in Polonia. È un viaggio per la Giornata mondiale della gioventù. Ed è un viaggio della memoria. Di san Giovanni Paolo II e nel doloroso silenzioso ad Auschwitz. In autunno è in Svezia, a Lund. È un altro viaggio di testimonianza ecumenica, questa volta per i cinquecento anni della riforma luterana. Tanto che Bergoglio – confida alla rivista Signum – in un primo momento non voleva neppure celebrare una messa per i cattolici. Cede solo dopo le richieste. Accetta, ma a patto di celebrare “non nello stesso giorno e non nello stesso luogo dell’incontro ecumenico per evitare di confondere i piani”.
A STRASBURGO MA NON IN FRANCIA
Quando nel 2014 va a Strasburgo, Francesco evita accuratamente di collegare l’incontro con le istituzioni europee (Parlamento e Consiglio) ad una visita in Francia. Per farlo segna una sfilza di record nella storia dei viaggi all’estero dei papi. Tra andata e ritorno sono quattro ore di volo per appena tre di permanenza. Non ci sarà un momento di preghiera pubblica. Non si ferma nemmeno a pranzo. Gli fanno notare che la cattedrale di Strasburgo compie mille anni, sarebbe gradita una sosta. Ma lui non va, proprio perché, dirà, sarebbe “stato già fare una visita in Francia”. Sul volo di rientro rispondendo ai giornalisti assicura che prima o poi ci sarà la Francia: Parigi, forse Lourdes. Ha già chiesto ai suoi collaboratori di inserire anche una città dove non sia andato mai alcun Papa, “per salutare quei cittadini”.
NESSUNA CAPITALE
Parigi, Bruxelles, Berlino. Sono tra le capitali dei paesi primi firmatari dei Trattati di Roma che hanno dato il via all’Europa unita. Un cuore dell’Europa oggi sotto attacco terroristico. Come sotto attacco è la in via di uscita Londra. Un terrorismo che il Papa rifiuta di definire “islamico”. I terroristi, come ha detto a Betania nel 2014, “sono povera gente criminale”. Quelle metropoli non hanno ancora ricevuto la visita di Francesco. Nonostante l’emergenza che lui ha ben presente e sui cui spesso ritorna.
MA IL PAPA NON TRASCURA L’EUROPA
Il Papa trascura l’Europa? Spiegava Bergoglio in una intervista concessa al vaticanista Andrea Tornielli riportata nel volume In viaggio (Piemme 2017): “Ho preferito privilegiare quei paesi nei quali posso dare un piccolo aiuto, incoraggiare chi, nonostante le difficoltà e i conflitti, lavora per la pace e l’unità. Paesi che sono, o che sono stati, in gravi difficoltà. Questo non significa non avere attenzione per l’Europa, che incoraggio come posso a riscoprire e a mettere in pratica le sue radici più autentiche, i suoi valori”. Poi un accenno che batte deciso su un tema a lui caro: “Sono convinto che non saranno le burocrazie o gli strumenti dell’alta finanza a salvarci dalla crisi attuale e a risolvere il problema dell’immigrazione”.
LE DODICI ORE AMBROSIANE DI FRANCESCO
Ecco così che le sue dodici ore a Milano si candidano ad essere il primo viaggio davvero centro-europeo del suo pontificato. È il riconoscimento a una metropoli “come cuore del cattolicesimo, non solo lombardo ma italiano ed europeo”, analizza Massimo Franco sul Corsera. Di una città che è un po’ l’emblema “del travaglio in cui è immersa l’Europa”, come sottolinea l’arcivescovo Angelo Scola. E anche qui Bergoglio ha lasciato la sua firma.
LO SGUARDO DI MAGELLANO SOTTO LA MADONNINA
“L’Europa vista da Madrid nel XVI secolo era una cosa, però quando Magellano arriva alla fine del continente americano, guarda all’Europa dal nuovo punto raggiunto e capisce un’altra cosa”. Diceva il pontefice argentino nell’intervista con il giornale delle Villas Miserias, Carcova News. Lo stile dello sguardo di Magellano ha dettagliato anche il programma della sua giornata milanese (ed europea). “Entro come sacerdote”, ha esordito nella prima tappa, tra i condomini popolari delle “case bianche”, dalla porta meneghina del quartiere Forlanini. Incontro in duomo con sacerdoti e religiosi; un saluto sul sagrato ai fedeli per il tempo di un Angelus; poi la sosta più lunga della visita, in un altro quartiere, centralissimo e periferico come nessun altro, il carcere di San Vittore, dove ha abbracciato i detenuti e ha pranzato con loro. La messa l’ha celebrata molto “fuori” dal centro, a Monza. Quindi di nuovo a Milano, allo stadio di San Siro, per la festa con i ragazzi. Eccetto un saluto istituzionale al sindaco all’aeroporto, nessun altro momento. Nulla per il mondo finanziario e professionale, né per quello culturale e accademico. Per quelle realtà che fanno di Milano la terza città d’Europa. Perché a Francesco l’Europa interessa. A finanza e cultura parla, ma soprattutto coi gesti.
IL LATINO AMERICANO CHE RILANCIA IL SOGNO EUROPEO
“Perché non parla mai di Europa?”, gli domandava Ferruccio de Bortoli nel marzo 2014. “Non ho nemmeno mai parlato di Asia o Africa”, rispondeva il Papa. E aggiungeva: “Non c’è stata ancora l’occasione. Verrà”. E ne sono venute. Il saluto alle istituzioni europee di Strasburgo nel novembre 2014. Poi nel maggio 2016. Francesco, la cui allergia ai premi è nota, accetta di riceverne uno, e uno solo: il Premio Carlo Magno. Glielo hanno consegnato i leader europei in Vaticano. “Un colmo per un Papa anticarolingio”, osserva il direttore di Civiltà Cattolica, Antonio Spadaro: “Lo ha fatto per lanciare un messaggio molto chiaro: sottrarre il cristianesimo dalla tentazione del braccio secolare che stritola il Vangelo”. Ieri l’altro, venerdì 24, ancora in Vaticano, ha incontrato i leader dell’Europa ormai ridotta a 27, alla vigilia del sessantesimo dei Trattati di Roma. Nella Sala Regia del Palazzo Apostolico con i capi di stato e di governo dell’Ue ha dettagliato il suo programma per sollevare quella “penisola dell’Asia che dagli Urali giunge all’Atlantico”. Memoria – “non come un insieme di fatti lontani, ma come linfa vitale che irrora il presente” – e speranza sono le parole chiave dell’intervento. La crisi – “economica, della famiglia, delle istituzioni, dei migranti” – dall’etimologia stessa del termine, impone un “discernimento” sul presente. Ha strigliato i governanti: l’Europa ritrova speranza quando l’uomo è il centro e il cuore delle istituzioni; nella solidarietà; quando non si chiude nella paura di false sicurezze; quando investe nello sviluppo e nella pace; quando si apre al futuro.
MEMORIA E SPERANZA
Sugli stessi temi di memoria e speranza affidati ai governati europei è tornato, il giorno successivo, sabato 25, a Milano. E non a caso lì; e non a caso lo ha fatto nell’omelia della messa celebrata alle porte della metropoli, nel parco di Monza. Ha invitato a “guardare al passato per non dimenticarci da dove veniamo”. Ad essere milanesi e ambrosiani, certo, ma sempre come membri del vasto popolo di Dio “multiculturale e multietnico”. Di fronte alle speculazioni “sulla vita, il lavoro, la famiglia, i poveri, i migranti, i giovani e il loro futuro”; di fronte “ai nostri smarrimenti”, le chiavi per uscire sono “memoria, appartenenza al popolo di Dio e possibilità dell’impossibile”. Sono anche le parole chiave del sogno europeo, che nasce dalle radici giudaico-cristiane che oggi sembrano finite tra parentesi, “davanti alla tentazione di ridurre gli ideali fondativi dell’Unione alle necessità produttive, economiche e finanziarie”. Davanti a un’Europa che non è – aveva scandito il giorno prima in Vaticano – “un prontuario di protocolli e procedure da seguire”, ma “una vita, un modo di concepire l’uomo a partire dalla sua dignità trascendente e inalienabile e non solo come un insieme di diritti da difendere, o di pretese da rivendicare”. Sono le radici che Francesco rilancia. Parlandone ai leader della Ue e, non a caso, nel suo primo vero viaggio in una metropoli europea.