Sui giornali trovano poco spazio, al massimo poche righe, eppure il numero di espulsioni come prevenzione antiterrorismo continua a ritmi molto alti. L’ultimo dato diffuso dal ministero dell’Interno riguarda un marocchino di 33 anni espulso il 28 febbraio dopo essere stato arrestato l’11 gennaio a Catania per aver lanciato sassi contro una Volante e aver fatto resistenza: sul suo cellulare furono trovate foto di una pistola associate a versi del Corano. Un caso come tanti che dimostra come l’odio sia radicato anche in soggetti spesso difficili da individuare e non solo in chi si radicalizza o recluta sul web aspiranti jihadisti oppure si attiva per pianificare un attentato.
Questo marocchino è il sedicesimo espulso del 2017, il numero 148 dal gennaio 2015. Sedici espulsi in due mesi sono una media sensibilmente più alta degli anni scorsi perché è ormai chiaro che gli investigatori puntano a fare “piazza pulita” di chiunque si dimostri potenzialmente pericoloso anche se non ha neanche tentato di commettere un atto di terrorismo. La validità di questo modello di prevenzione trova conferma nella sorte toccata a qualche espulso che, per esempio, è poi morto in Siria. Era sembrato strano che per un mese, tra il 25 gennaio e il 25 febbraio, non ci fossero stati provvedimenti del genere, invece in quelle settimane furono espulse sei persone delle quali non fu data notizia: una deduzione, questa, basata sulla contabilità contenuta nei comunicati del Viminale.
La prevenzione sul territorio nazionale si sposa con lo scambio di informazioni e con l’attività di prevenzione degli altri Paesi europei dove, lo sappiamo, le cose non vanno sempre come dovrebbero. Sconcertante, a questo proposito, la notizia contenuta nella recente relazione dei servizi segreti al Parlamento secondo cui alcune nazioni non sono in grado di censire quanti loro cittadini siano andati in Siria e Iraq e dunque siano potenziali foreign fighter. Alla “lettura” degli investigatori e dell’intelligence in base alla quale la sconfitta militare dell’Isis sul terreno aumenta la possibilità di attentati in Europa si è aggiunto il video, di cui ha parlato una tv irachena, nel quale il califfo Abu Bakr al-Baghdadi avrebbe ammesso la sconfitta in Iraq invitando i combattenti a tornare nei loro paesi di origine per farsi esplodere. Nonostante i dubbi sull’attendibilità, è un’ulteriore conferma del rischio foreign fighters. Intanto a Bruxelles nel pomeriggio del 2 marzo, a quasi un anno dall’attentato del 22 marzo 2016, la polizia ha fermato un uomo a bordo di un veicolo che era passato con il rosso e che a bordo aveva due bombole di gas, poi fatte esplodere (una era vuota e non erano collegate). Sembra che l’uomo fosse un amico di Najim Laachraoui, uno dei kamikaze di un anno fa, e che secondo la stampa belga sarebbe stato addirittura condannato a 5 anni per terrorismo in un processo a un reclutatore di foreign fighter, ma la pena era stata sospesa per la condizionale, a conferma delle stravaganze dell’ordinamento belga. La conclusione è stata l’evacuazione della zona e il panico per alcune ore.
In Francia gli arresti degli ultimi mesi fanno sperare in un miglioramento investigativo e di intelligence ed è certamente molto significativo e preoccupante che si abbassi l’età dei potenziali terroristi: il 28 febbraio alla periferia di Parigi sono state arrestate tre ragazze fra i 15 e i 18 anni che fanno parte di un gruppo chiamato “Le Leonesse” in contatto con il jihadista Rachid Kassim, ucciso dall’attacco di un drone l’8 febbraio in Iraq e mandante di una quindicina di attentati o tentativi di attentato in Francia, tra i quali l’omicidio di padre Jacques Hamel nella chiesa di Saint-Etienne-des-Rouvrais. Da stabilire se le ragazze preparassero un attentato nella capitale francese o se volessero andare nei teatri di guerra. Il problema dei minorenni vicini al terrorismo è palpabile in Francia: sono 53 i giovani di meno di 18 anni indagati per questi reati e a Parigi è cominciato il primo processo per terrorismo davanti al tribunale dei minori, quello a carico di Yusuf K., l’adolescente che lo scorso anno attaccò a colpi di machete un insegnante di una scuola ebraica di Marsiglia. La magistratura accusa il ragazzo di nazionalità turca e di origini curde, all’epoca quindicenne, di aver agito “in nome di Allah” e dell’Isis e di aver attuato un’aggressione antisemita premeditata.
A Berlino, invece, la polizia ha chiuso la moschea di Moabit che porta il nome di un’associazione islamica, “Fussilet 33”. Nota come “la moschea della gente dell’Isis”, si parlava della sua chiusura da un paio d’anni, ma si è arrivati solo ora a un blitz con 450 agenti in tre Laender (Berlino, Brandeburgo e Amburgo) che hanno effettuato decine di perquisizioni. La svolta, se così vogliamo chiamarla, è stato l’attentato del 19 dicembre al mercatino di Natale di Berlino realizzato da Anis Amri, frequentatore della moschea. Prima di quell’attentato (nel quale morì anche Fabrizia Di Lorenzo) la pericolosità di Amri era stata sottovalutata e comunque si pensava che chiudere la moschea avrebbe rappresentato una punizione per i normali fedeli. Ora, invece, c’è chi crede che la chiusura favorisca i potenziali jihadisti che si raduneranno altrove. La prevenzione è un’altra cosa, ma impararla dagli italiani evidentemente costa troppo in termini di orgoglio nazionale.