Sono le 14.40 quando sotto il Big Ben scocca l’ora del jihad. Un uomo, non ancora identificato, percorre a gran velocità a bordo di un suv Hyundai il ponte di Westminster, travolgendo numerosi passanti. La sua folle corsa si interrompe con uno schianto sulla cancellata del Parlamento. L’uomo esce dall’auto e si dirige verso l’ingresso, brandendo un coltello di 20 centimetri. Raggiunto da un poliziotto, lo pugnala a morte. Altri agenti a quel punto gli sparano, neutralizzando la minaccia. Il bilancio è pesante: quattro morti, più l’assalitore.
È la conta tragica dell’ultimo episodio del jihad contro l’Occidente, lanciato più di tre lustri fa da al-Qaida e ora proseguito dai seguaci dello Stato islamico. Una guerra infinita, che va avanti nonostante il principale risultato del movimento, la fondazione del califfato, si stia sgretolando sotto l’offensiva delle forze di coalizione. Ma la fine della grande utopia dell’Islam radicale non ne cancella la volontà di colpire i nemici, possibilmente a casa loro. Attacchi da mettere a segno secondo le istruzioni che lo Stato islamico ha diramato già nel 2014: bisogna colpire gli infedeli con qualsiasi mezzo, un coltello, una pietra, o un veicolo lanciato a folle velocità. Diceva così Abu Mohammed al Adnani, stratega della propaganda jihadista perito qualche mese fa in Siria. I suoi comandi sono stati seguiti in questi due anni da numerose persone, i famosi lupi solitari con cui lo Stato islamico può agevolmente portare avanti la sua offensiva del terrore.
I precedenti più vicini sono Nizza e Berlino, città funestate da analoghi attacchi avvenuti rispettivamente nel luglio e a dicembre dell’anno scorso. In entrambi i casi, gli obiettivi prescelti avevano un forte valore simbolico: i festeggiamenti del 14 luglio per Nizza, un mercatino di Natale per Berlino. Stavolta, però, il jihad fai da te ha puntato ancora più in alto, seminando la morte presso la sede del Parlamento più antico della storia. Due piccioni con una fava: si colpisce una nazione impegnata nel contrasto allo Stato islamico e, al tempo stesso, l’odiata democrazia, che i jihadisti ripudiano in quanto prodotto non islamico.
L’attacco di ieri riporta il terrore entro i confini dell’Europa, ricordandoci che la lotta al terrorismo non finirà con la caduta di Mosul o di Raqqa. Proprio ieri, dall’altra parte dell’Atlantico, i delegati di 68 Paesi si riunivano a Washington per fare il punto sulle operazioni contro il califfato. In agenda, oltre al coordinamento degli sforzi militari in Siria ed Iraq, anche la strategia per debellare questo insidioso avversario nel lungo termine. L’imminente caduta delle roccaforti del Califfato – è opinione comune – potrebbe aprire una nuova stagione di violenza in Occidente.
I circa seimila foreign fighter con passaporto europeo o statunitense stanno facendo ritorno a casa. La loro missione in Medio Oriente è finita, e ora la loro preparazione militare, il loro sangue freddo e la loro volontà di vendetta potrebbero infierire sui paesi di origine. Abbruttiti da anni di combattimenti e spargimento di sangue, i reduci del jihad siro-iracheno rappresentano la preoccupazione numero 1 delle nostre intelligence.
Ma la prima minaccia contro di noi è rappresentata dal fronte virtuale di questa guerra senza limiti. Il pericolo viene infatti anche dalla copiosa propaganda on line dello Stato islamico, che seduce e esorta i simpatizzanti ad entrare in azione autonomamente. Ma c’è anche un altra minaccia che viene dal cyberspace: quella dei burattinai del terrore, che attraverso applicazioni di messaggistica istantanea come Telegram forniscono istruzioni ai volontari perché colpiscano nel modo più efficace. Il clamoroso attacco di ieri non sarà l’ultimo segnale di vita della macchina da guerra messa in moto dall’ideologia jihadista. Il virus si è propagato a macchia d’olio, stregando migliaia di giovani che costituiscono l’esercito invisibile del califfo. Impedirgli un nuovo exploit potrebbe essere impossibile.