La Libia è a pezzi. Alleanze e rotture si moltiplicano tra le parti in lotta, anche il governo Serraj, uscito dall’accordo di Skirat, ha molti nemici. Tuttavia non è saggio restare a guardare. Abbiamo bisogno di uno Stato unitario e in pace. Raggiungere tale obiettivo non sarà facile e necessiterà di tempo ma è giusto iniziare da quello che c’è. A Roma c’è stato un “punto di contatto” coi ministri dell’interno di paesi delle due sponde. All’Italia si riconosce la leadership sulla sicurezza delle rotte del Mediterraneo centrale, inclusa la questione dei migranti. Puntare sull’attuale premier di transizione come interlocutore è un rischio politico calcolato ma è anche l’unica scelta immediata. Simmetricamente in Libia la nostra diplomazia continua a fare la navetta tra le altre parti per favorire il dialogo. Infine negoziamo con i vari paesi interessati alla crisi, per ottenerne una posizione comune. Come sempre accade, l’instabilità crea un vuoto in cui si inserisce il racket dei traffici di esseri umani. Creare hub a sud e operare con i corridoi umanitari è un modo per strappare vite dalla loro mani.
È una lotta contro il tempo ma anche contro la divaricazione degli interessi politici e la ragnatela del crimine internazionale. Sappiamo che ci sono forze che non vogliono l’accordo tra libici e a cui conviene mantenere una situazione di stallo. Fare politica estera è saper utilizzare tutti gli strumenti necessari al risultato ed operare affinché maturi una ragionevole soluzione. Per l’Italia non c’è soluzione militare possibile ma solo un accordo politico tra le parti, libere tuttavia da condizionamenti esterni. Per ora abbiamo dalla nostra alcuni fatti, il più importante dei quali è aver ottenuto l’embargo di armi pesanti. Altrimenti le città libiche sarebbero a terra, come in Siria, e sui barconi salirebbero i libici.
La Libia non è l’unico paese in cui operiamo per avviare lo sviluppo e ottenere una gestione comune dei flussi. Ce ne sono tanti in Africa Occidentale e nel Corno, e tutto si svolge contemporaneamente. Continua anche il dibattito a Bruxelles con i nostri partner per conseguire gli strumenti del Migration Compact. Progressivamente si è creato un consenso attorno all’idea italiana: non bastano i doni ma ci vogliono grandi interventi di investimento. L’Africa va presa sul serio e occorre avere con essa un negoziato paritario. Dobbiamo preservare lo Stato laddove è minacciato e aiutare il continente a decollare. D’altra parte siamo nello stesso spazio economico e geografico.
Non è una questione di denaro ma di volontà politica e di pensiero lungo. Ciò vale anche per la parte nazionale del discorso: occorre una prospettiva di lungo periodo, che trasformi la migrazione in opportunità e sconfigga l’allarmismo, mediante le non più rinviabili leggi sull’integrazione.