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Russia e Cina contro gli Usa all’Onu su Assad

In sede di Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, Russia e Cina hanno posto il veto sulla possibilità di porre sotto sanzioni il presidente siriano Bashar el Assad e il suo regime ritenuto responsabile secondo un’indagine Onu di aver usato barrel bomb arricchite con cloro per bombardare i civili.

LE BARREL BOMB (AL CLORO)

Le barrel bomb in sé sono armi improprie, perché colpiscono in modo indiscriminato, essendo barili imbottiti di esplosivo e pezzi metallici simili agli shrapnel, come venivano chiamati nella Seconda Guerra Mondiale i proiettili di artiglieria inventati dall’omonimo generale inglese, dove i pezzi di metallo inseriti all’interno delle bombe servono ad aumentare drammaticamente gli effetti dannosi: queste bombe non hanno alcun sistema di selezione dell’obiettivo e vengono lasciate cadere a casaccio sui quartieri in mano ai ribelli dagli elicotteri governativi, talvolta appunto arricchite con cloro, che causa problemi respiratori anche gravi dopo la detonazione. Il cloro di per sé non un’arma chimica, perché ha anche ampi usi civili, ma quando viene impropriamente abbinato ad altro genere di ordigni esce dalle convenzioni internazionali e il suo uso diventa un crimine di guerra.

LA RISOLUZIONE

La risoluzione era stata presentata da Francia e Gran Bretagna per colpire alti ufficiali del regime siriano con sanzioni, perché indicati come responsabili, in almeno tre occasioni tra il 2014 e il 2015 da uno studio portato avanti proprio dalle Nazioni Unite (il lavoro dell’Onu non è così celere, se si considera che nello stesso periodo ce ne saranno stati a dozzine di casi analoghi, per non parlare poi del 2016, anno in cui il regime ha martellato fino allo stremo Aleppo). Inglesi e francesi, insieme a russi e cinesi, sono quattro dei cinque Paesi permanenti del CdS dell’Onu, il quinto sono gli Stati Uniti: in tre, Parigi, Londra e Washington hanno votato a favore della risoluzione punitiva, ma nel CdS non conta la maggioranza, e basta il veto di uno solo degli Stati permanenti per una bocciatura. Non è la prima volta che questo schema si presenta negli ultimi anni, ma c’è da fare una puntualizzazione politica sul momento in cui accade.

SUL SOLCO PRECEDENTE

Poco prima che il presidente americano Donald Trump parlasse alle Camere riunite a Washington, a New York si svolgeva la vicenda che va registrata nell’archivio di quelle che interessano i tanto discussi rapporti tra Trump stesso e la Russia – quelli indagati dall’Fbi per il possibile aiutino dato dal Cremlino nella vittoria alle presidenziali in cambio di un futuro atteggiamento più morbido nei confronti di Mosca, su cui il presidente s’è già speso a parole, molto meno negli atti. L’ambasciatrice americana Nikki Haley, ex governatrice del South Carolina fortemente voluta da Trump al Palazzo di Vetro, ha reagito duramente al veto, dicendo che russi e cinesi tengono più “ai loro amici nel regime di Assad che alla sicurezza globale”, che “quando gli stati iniziano a cercare scuse per altri stati che uccidono il loro stesso popolo, il mondo è senza dubbio un posto più pericoloso”, e definendo “barbaro” l’uso delle barrel bomb. Questo genere di posizioni, molto in linea con le vedute del partito repubblicano in politica estera (e in particolare sul rapporto con la Russia), sono state prese già in passato da Haley, e sembrano seguire la linea calcata negli ultimi due anni dall’amministrazione Obama.

TRUMP E LA RUSSIA

Quando si pensa dunque a Trump che apre la porta a Mosca, c’è da tenere conto dunque di tutto un sistema di situazioni definite che non si modificano troppo velocemente: e che forse lo stesso presidente non ha troppo interesse a squilibrare troppo adesso, d’altronde è stato proprio Trump a impostare una linea ondeggiante sul dossier-Russia, dando segnali di apertura seguiti sempre da freni che parlavano di un rapporto di fiducia che fondamentalmente va costruito. In mezzo tutta una serie di sfumature e confusioni, queste ultime frutto anche di dichiarazioni strampalate fatte dallo stesso Trump: per esempio, due giorni fa al pool di giornalisti della Casa Bianca ha detto di non aver chiamato in Russia “da almeno dieci anni” (anche se in effetti ha avuto una mesata fa una conversazione diretta con Vladimir Putin), parole che si aggiungono a una lista di dichiarazioni contrastanti, che passano dai rapporti dichiarati con Putin del 2013, fino al “non so chi è” del luglio scorso.

LA REAZIONE DI MOSCA

Da Mosca stanno reagendo. Da tempo si parla del fatto che il Cremlino abbia un po’ perso le speranze sul riallineare le relazioni con Washington. Martedì, durante una relazione alla Duma, Sergei Ryabkov, vice ministro degli Esteri, ha detto che le relazioni con gli Stati Uniti sono in questo momento ai minimi, a livello dei tempi della Guerra Fredda, e che non resta che sperare in Trump per risollevarle. Leonid Slutsky, capo della commissione Esteri della Duma, ha aggiunto che “se il budget militare americano aumentasse davvero come annunciato, allora reagiremo“. Dichiarazioni del genere erano uscite da Mosca anche dopo la pubblicazione dell’intervista in cui Trump aveva parlato della necessità americana di affermarsi leader globale sulla difesa nucleare.

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