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Cosa succede se Donald Trump silura il Wto

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Forse gli europei decideranno di aumentare i loro bilanci per la difesa per sventare il disimpegno degli Stati Uniti dalla Nato, e probabilmente si doteranno anche di nuovi strumenti di sicurezza.

Ma sulla politica commerciale ci sarà poco da fare per evitare il collasso dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), pilastro e garante delle regole degli scambi internazionali, se Trump darà seguito ai propositi di abbandonarla, dissociandosi dall’organismo di risoluzione delle controversie.

Ideato, non a caso, nel contesto della liberalizzazione globale sancita nel 1994 a conclusione dell’Uruguay Round, il meccanismo è stato creato con l’obiettivo di evitare guerre commerciali, sanando i contenziosi mediante la pronuncia di un panel di esperti selezionati per consenso, cui tutti gli Stati, senza differenziazione alcuna, sono tenuti ad adeguarsi. Si prevedono compensazioni per il danno subito dalla controparte e, se del caso, la modifica della legislazione nazionale in violazione delle regole comuni.

LA FINE DI UN’EPOCA

Questo organismo è più di altri simbolico del clima di un’epoca, quella appunto della liberalizzazione globale. Regole valide per tutti, rimedi applicabili ugualmente a tutti. Un regime in teoria egalitario, ma che di fatto avrebbe premiato gli interessi dei grandi protagonisti del commercio mondiale – l’Occidente e, in particolare, Washington -, in grado di far valere la propria supremazia nei rapporti di forza.

L’emergere di altri protagonisti (in primis la Cina, che ha aderito al Wto nel dicembre 2002), e la loro assertività nella difesa dei propri interessi, hanno scardinato un funzionamento che era dato per scontato.

Più di una volta, gli stessi Stati Uniti sono stati ripresi per la loro condotta commerciale e invitati ad adeguarsi: valga per tutte, la bocciatura delle misure anti-dumping sulle importazioni di acciaio dalla Cina, adottate a fronte di forti pressioni dei produttori nazionali. Nel caso in cui, tra l’altro, la Cina dovesse acquisire lo status di “economia di mercato” (cui aspira nonostante le carenze dei suoi comportamenti rispetto alle regole liberali e l’opposizione europea), sarà molto più difficile ricorrere a misure difensive per contrastarne le violazioni.

AMERICA FIRST!

Il sistema multilaterale degli scambi aveva già perso slancio con l’incalzante tendenza al regionalismo, in particolare con i vistosi progetti lanciati dall’amministrazione Obama: il Tpp, già negoziato con dieci paesi del Pacifico (esclusa la Cina), e il negoziando Ttip con l’Europa.

Ma Trump va drasticamente oltre. “Il Wto è un disastro” aveva preconizzato durante la campagna elettorale; e le nomine di esperti notoriamente sulla stessa lunghezza d’onda come Wilbur Ross, Robert Lighthizer e Peter Navarro ai posti chiave della politica commerciale hanno confermato il giudizio della prima ora.

Hanno fatto seguito il tempestivo ritiro dal Tpp e l’accantonamento del Ttip (che peraltro preoccupava molti europei soprattutto con riferimento agli standard sanitari e ambientali), nonché il continuo richiamo all’imposizione di dazi laddove le importazioni vengano ritenute a detrimento dei lavoratori americani o della valorizzazione di risorse locali.

Il commercio, prima ancora delle spese per la Nato – e della disaffezione, già annunciata, verso Onu, Consiglio diritti umani, Agenzia per i rifugiati, Agenzia per i palestinesi ed altre organizzazioni multilaterali -, è destinato ad essere un test del proclamato principio “America first” e della fine dell’ordine commerciale mondiale un tempo governato e difeso anzitutto da Washington.

Mani libere. D’ora in avanti, se il documento annuale sulla politica commerciale inoltrato dall’amministrazione Trump al Congresso dovesse passare, l’America applicherà i propri strumenti legislativi (le sezioni 201 e 301 del Trade Act del 1974) che prevedono la possibilità di aumentare le tariffe doganali o imporre quote di importazione o altre sanzioni in caso di comprovato danno o di pratiche commerciali scorrette secondo un giudizio nazionale esclusivo.

LE CONSEGUENZE PER L’UE                                                                                         

Non sfugge il potenziale dirompente di un tale approccio per l’Europa, che ha fatto del multilateralismo e delle regole multilaterali un asse portante delle sue pratiche commerciali, e che si accinge a identificare nella crescita economica e nell’occupazione i pilastri del suo rilancio.

Perché una contrazione dei commerci internazionali indotta dal protezionismo americano avrebbe inevitabilmente conseguenze vistose sulle economie di altri Paesi, determinando un circuito vizioso di risposte e contro-risposte. Guerre commerciali? Forse, ma quantomeno uno scenario di incertezza e instabilità dei mercati che per definizione rappresenta un problema per gli operatori economici, compresi quelli dei Paesi commercialmente più attrezzati.

Angela Merkel non potrà non evocarne i termini, anche per conto dell’Europa, nella sua missione negli Stati Uniti. Tra l’altro, ironia della sorte, la Gran Bretagna, nel lasciare il mercato unico europeo, sta puntando proprio sul recupero della sua proiezione commerciale mondiale nel momento in cui un partner di tale rilievo ripiega sul protezionismo.

Vi è chi rileva che oggi gli Stati Uniti hanno deficit commerciale con oltre 100 Paesi. Come dire che il fenomeno è strutturale, che la domanda al consumo eccede l’offerta, e che barriere imposte a un Paese potrebbero tradursi in aumento del deficit con altri.

Senza contare che gran parte della produzione avviene ormai tramite le catene del valore transnazionali, sviluppatesi appunto con la liberalizzazione globale dei mercati cui proprio l’organismo di risoluzione delle controversie ha inteso porre un argine. Un cambiamento radicale di passo da parte americana, ove effettivamente applicato, equivarrebbe a una rivoluzione epocale.

(Articolo pubblicato su AffarInternazionali)


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