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Ernst von Salomon, destino di un rivoluzionario-conservatore

Ernst von Salomon

“Un destino tedesco” è uno dei romanzi più intensi di Ernst von Salomon (1902-1972), che Oaks editrice (pp. 219, £ 18,00) ripropone a distanza di quarantacinque anni dalla prima edizione italiana. Il protagonista. A.D., simboleggia praticamente la Germania stessa ed i travagli che l’hanno stravolta nel secolo scorso. Il personaggio è un uomo qualunque che ha attraversato tutte le fasi della dissoluzione del suo Paese. Imprigionato sotto la Repubblica di Weimar per aver fatto parte dei Corpi Franchi, accusato di attività sovversiva ed internato in un lager nazista, poi nuovamente in galera per opera dei “liberatori” americani e sovietici, è il paradigma di una tragedia che ci aiuta a comprendere in tutti i suoi risvolti.

Il romanzo è introdotto da un saggio della firma di Formiche.net, Gennaro Malgieri, del quale proponiamo alcuni stralci. 

Ernst von Salomon è lo scrittore tedesco che meglio di ogni altri è riuscito ad esprimere nella sua opera il disagio di una generazione rappresentandolo come il “motore” di una rivoluzione purtroppo tradita. Gli avvenimenti che segnarono la Germania tra il 1918 ed il 1945, dei quali fu in parte protagonista, offrirono a von Salomon il materiale su cui avrebbe costruito un’epica letteraria della lotta, della militanza politica, della rabbia sociale e, infine, della dissoluzione della sua nazione , speculare, si potrebbe dire, alla narrazione filosofica e storica proposta da  Oswald Spengler che da quella stessa temperie di eventi trasse la convinzione  dell’ineluttabile declino dell’Occidente e dunque della relativa crisi del mondo  germanico, non disgiunto, tuttavia, dalla flebile speranza che forti iniezioni di “prussianesimo” nell’inevitabile rivoluzione nazionale avrebbero potuto rendere davvero decisivi gli anni del riscatto dopo la catastrofe seguita al vergognoso Trattato di Versailles: i fatti, come si sa, s’incaricarono di dargli ragione sul primo punto, mentre il secondo rimase sullo sfondo del visionario interprete del tramonto della civiltà europea.

Tra von Salomon e Spengler, se si vuol leggere in parallelo la descrizione e la interpretazione da loro proposta di tempo convulso del quale furono partecipi, caratterizzato da spinte reattive tese tanto alla restaurazione dell’antico ordine quanto alla propensione ad assoggettarsi a nuovi e violenti demagoghi,  prende forma, si precisa e diventa intellegibile quel “destino tedesco” i cui tratti si sarebbero delineati con la finale occupazione e divisione della Germania, sintesi della più complessiva “colonizzazione” dell’Europa. Il romanziere ed il morfologo della storia, in una rara combinazione di suggestioni, racconti, valutazioni ed analisi, svolte su piani diversi ovviamente, come diversa era la loro sensibilità culturale e la formazione intellettuale, ci hanno dischiuso la comprensione di un mondo che ha vissuto dalla Prima Guerra Mondiale alla caduta del Muro di Berlino, circa settantacinque anni, cercando una via senza trovarla, imbattendosi nel contempo in fallaci illusioni che l’hanno squassato.

Ciò che nel secondo dopoguerra è accaduto alla Germania ha purtroppo asseverato le previsioni spengleriane e ha visto diventare sempre più cupe le ombre tra le quali si è aggirato von Salomon, uomo d’azione il quale, ad un certo punto della sua vita, di fronte alla piega che stavano prendendo gli eventi e quando le speranze di rinascita per come le immaginava si andavano spegnendo, ha  immaginato che la letteratura poteva essere più forte di un attentato, perfino di una rivolta o di una sterile militanza in un campo occupato da chi si impossessava dei sentimenti del popolo per piegarli ai suoi scopi.

La letteratura poteva  se non altro  tenere deste, nel tempo delle fughe sotto le capaci ali di un “Forestaro” senza scrupoli o dell’abbandono della patria,  le coscienze di milioni di esseri umani prima piegati dalla disfatta bellica, dalla scomparsa di un Impero, dalla caduta verticale di una società ordinata ed ambiziosa; poi dalla confusione programmata dagli illusionisti di Weimar; quindi abbacinati e poi annientati dall’ascesa del nazionalsocialismo che travolse lo spirito tedesco mentre demagogicamente fingeva di esaltarlo; infine travolti dal crollo totale che avrebbe ridotto la nazione a terreno di scorribande selvagge da parte delle armate dell’Est e dell’Ovest, togliendole tutto, a cominciare dall’anima.

Spengler non fece in tempo a vedere gli esiti del cammino intrapreso dalla Germania dal 1918, anno fatale nel quale venne pubblicato il primo volume del Tramonto dell’Occidente , il secondo apparve nel 1922 ribadendone  il clamoroso successo ; von Salomon lo seguì, invece, passo passo, fino alla sua morte, avvenuta dodici anni dopo l’uscita del suo libro, nel 1960, che riassume la parabola della Germania nella vita di un solo tedesco: Das Schicksal des A.D. – Ein Mann in Schatten – Der Geschichte. In Italiano il titolo rende meglio il senso del romanzo: Un destino tedesco. (…)

Chi era questo fantomatico ed emblematico rappresentante della non-esistenza della nazione tedesca? Un uomo che trascorse buona parte della sua vita in carcere, passando da una prigione ad una fortezza, da un campo di concentramento ad una colonia penale per non aver sostanzialmente commesso nessun crimine, a meno di non voler considerate tale l’avviso fatto giungere al padre della giovane donna che amava, Charlotte, di stare attento perché il suo nome di “sovversivo” era sulla lista nera delle autorità e della Reichswehr nella quale si era arruolato come ufficiale. Nel corso di una rocambolesca perquisizione nella casa dell’uomo che era anche un autorevole deputato socialdemocratico, lui stesso trovò il documento che maldestramente nascose, senza minimamente provare a chiedersi se era un attimo buono o cattivo quello che aveva fatto, dettato dalle ragioni dell’anima, dal sentimento che procede per altre strade rispetto alla re ragione e perfino all’interesse. Tuttavia non riuscì ad impossessarsene per distruggerlo dovendo eseguire ordini e procedure che glielo impedivano. Fu così che scelse la diserzione e da essa originarono tutti i suoi guai. Dal momento in cui si costituì, dopo cinque giorni di allucinante vagabondaggio, allontanandosi dalla donna amata e dalla sua famiglia per non aggravare la loro posizione, A.D. iniziò il lungo cammino nei gironi infernali di una Germania che progressivamente scivolava verso il baratro.

Il prigioniero di Weimar diventa il prigioniero del nazismo e poi il prigioniero dei liberatori americani, russi, inglesi, francesi, polacchi. Attraversa la disperazione, la vive, ne fa l’elemento costitutivo della sua stessa esistenza, per aver dato ascolto al cuore ed ingenerato un equivoco sul quale si eserciteranno voluttuosamente i suoi accusatori, la menzogna, più forte di qualsiasi violenta coercizione, che lo trasforma suo malgrado in comunista, mentre comunista non era e non lo sarebbe mai stato. Come tale viene processato e condannato. Un criminale politico costretto a guardare  giorno dopo giorno all’inabissamento della Germania da dietro le  sbarre di Giessen, Buchenwald, Dachau, Landsberg – solo per ricordare le tappe più significative della sua odissea. Diventa consapevole, nell’attesa che la pena venga ridotta ed invece si allunga sempre di più, che era chiara “la volontà dei Paesi vincitori di non permettere che la Germania risorgesse più come nazione, ignorando qualsiasi sua pretesa di avere una missione da compiere”. E questa sua consapevolezza la condivideva con il “Movimento nazionale”  nel quale  i suoi connazionali tentavano di presentare “quei valori eterni ed indubitabili che erano nati dalla mentalità tedesca, anche se si vedevano costretti a tirarli da tarlate cassapanche o da polverosi scartafacci”.

Rifletteva A.D. sulla sua condizione di reprobo, di “proscritto” in un tempo che gli appariva essere sempre meno suo ed un Paese che gli diventava estraneo. E non tardò a concludere, con un ragionamento tutto politico applicato alla sua condizione: “Il concetto di libertà, usato in politica come categoria mai sufficientemente definitiva ha creato qualche confusione: ha richiesto ai conservatori di essere liberali con una tale risolutezza che soltanto loro stessi avrebbero potuto dimostrare”. Ricordava Goethe,  secondo cui “le idee non devono mai essere liberali, è necessario che lo siano invece gli uomini”. Di conseguenza la liberalità è una forza, non una debolezza. E commentava, A.D.: “La forza qualifica  il potere. Ogni idea che giunge al potere deve, quindi, necessariamente essere conservatrice”. (…)

Troppo facile liquidare Un destino tedesco come un romanzo “semplicemente” esplicativo del lungo processo di desertificazione morale, civile, storica della Germania. Certo, è anche questo. Ma è soprattutto un romanzo intellettuale, un romanzo politico, se si vuole, ed anche per tale motivo poco indagato a differenza di altri libri come I Proscritti (senza dubbio il suo capolavoro), Io resto prussiano, Die Kadetten, Die Stadt, e perfino la “confessione”- saggio Freikorps, per non dire del suo ultimo romanzo Die Schone Willelhmine.

Un romanzo, dunque, complesso che racconta una storia, ma fornisce anche un atto d’accusa contro il nazismo quale “usurpatore” del conservatorismo- rivoluzionario nelle sue varie declinazioni, movimento intellettuale anti-totalitario e tutt’altro che razzista, mettendone in risalto il pressappochismo ideologico e la prassi disumana racchiusa nell’operato, in particolare, di Heinrich Himmler, il potente capo delle SS che “deve venir considerato come un fenomeno singolare: una stranissima personificazione dell’inumano. Di fronte a lui fallisce ogni giudizio umano come di fronte ad uno strumento perfetto”. Himmler “vedeva il male in tutto, doveva distruggere tutto, e, alla fine, persino lo strumento da lui creato, e lui stesso. Dalle sue SS, originariamente piccola truppa composta da giovanotti particolarmente abili nel picchiare, egli formò un’élite, con cognizione di causa e applicando tutti i metodi di cui disponeva, determinando la totale confusione tra una ‘Weltanschauung nazionalsocialista’ ed i più bassi livelli della volontà umana”.

A.D., suo malgrado, diventò forzatamente un collaboratore dei carnefici nei campi di sterminio dove si consumavano orribili esperimenti biologici. Comunista e coadiutore dei nazisti. Paradossale. Ma non tanto per i liberatori americani e russi che invece di restituirgli la libertà, lo costrinsero ad ulteriori peregrinazioni, umilianti confessioni, detenzioni crudeli, processi incomprensibili. Poi, alla fine, l’agognata libertà, ma non il condono della pena secondo una prassi ipocrita ed incivile anch’essa.

A.D., uscito dal carcere, si ritrova in un paesaggio di rovine. Chi lo incontra  “difficilmente riuscirà a credere che questo è l’uomo che espiò i peccati del nostro tempo, rappresentandoci tutti, un uomo che, nel mezzo della problematica del nostro ‘indomito passato’, ha domato completamente, da parte sua, il passato”.



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