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Perché è minimalista la manovra di Gentiloni e Padoan

bruxelles, euro, francia, Italia

Manovra minimalista che chiude una legislatura travagliata. Tante aspettative, ma anche tante delusioni. Le distanze con il resto dell’Europa rimangono elevate. Il ciclo economico ha subito un’inversione, ma i progressi sono quanto mai limitati. Quella crescita ipotizzata – un più 1,1 per cento – è ancora troppo lenta e fragile per colmare il vuoto che si è determinato dopo la crisi della Lehman Brothers e che – a differenza degli altri partner – non è stato ancora colmato.

L’Italia non ha quindi superato il double deep degli anni precedenti: il sommarsi di due crisi. Quella esogena degli anni 2007 – 2008, che ha colpito tutti i Paesi. E quella successiva del 2011 – 2012, di carattere endogeno, indotta dalle politiche di austerità, volute da Mario Monti. Anzi quest’ultima ha presentato un differenziale, rispetto alla dinamica degli altri Paesi, ben più consistente. Ed una persistenza maggiore, che si è trascina, con valori negativi, nella crescita del Pil, anche negli anni successivi.

Si è molto discusso sulle cause che determinarono la crisi del 2011. A partire dall’improvviso aumento degli spread sui titoli del debito pubblico, che rischiavano di portare il Paese nel baratro del default. Fu complotto? Come pure è stato detto. Le vendite di titoli italiani da parte di alcune banche straniere, ed il corrispondente acquisto di Bonos spagnoli, è un fatto che non può essere negato. Ciò che resta da capire se quello fu semplice “sedizione” finanziaria oppure l’inevitabile risposta del mercato ai crescenti squilibri dell’economia italiana.

Elementi oggettivi sembrerebbero confermare questa seconda ipotesi. I dati relativi ai rapporti con l’estero, dimostrano che nel 2011 vi fu uno shock competitivo. Segnato dal profondo rosso della nostra bilancia commerciale. Che allora toccò un deficit di oltre 30 miliardi. Dovuto alla dinamica della domanda interna, in continua crescita, non compensata da un aumento della sottostante produttività. Per cui l’eccesso di importazioni sulle esportazioni fu lo strumento attraverso il quale si ricompose l’equilibrio macro-economico.

Se non vi fosse stata la copertura dell’euro, la svalutazione monetaria sarebbe stata l’inevitabile conseguenza, come insegna tutta la storia antecedente alla nascita della moneta unica. Saremmo rientrati in un vecchio loop. La svalutazione che rende più competitive le nostre esportazioni e più care le importazioni. L’inflazione che riparte comprimendo salari e pensioni. Il debito pubblico che tende a diminuire nel suo rapporto con il Pil, grazie all’aumento del denominatore, determinato dal semplice rigonfiamento dei prezzi.

Lo scudo dell’euro ha impedito che tutto ciò avvenisse. Ma nulla ha potuto contro il mutamento delle aspettative dei mercati. I quali, consapevoli delle accresciute fragilità dell’economia reale, hanno preteso un aumento dei saggi d’interesse, sul debito italiano, per compensare il maggior rischio sistemico. Ed il conseguente aumento degli spread ne é stato il campanello di allarme, che ha legittimato le successive politiche deflattive.

Dal punto di vista degli squilibri macro-economici hanno funzionato. Comprimendo la domanda interna, gli squilibri con l’estero sono progressivamente diminuiti, trasformando il deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti in un surplus che, nel 2016, ha raggiunto i 50 miliardi di euro. Il prezzo pagato, tuttavia, é stato ingente: compressione dei salari, disoccupazione, caduta dei prezzi interni, che hanno reso ancor più drammatico il rapporto debito pubblico – Pil. Se prima del 2011 esso tendeva a ridursi. Da allora è invece cresciuto di oltre 30 punti, nonostante le politiche di compressione dei tassi di interesse perseguite da Mario Draghi.

Ma ancora più rilevanti sono risultate le conseguenze sul piano politico. L’andamento “stop and go” ha bruciato gran parte della credibilità dell’establishment. Dando spazio ad una contestazione – il successo dei cinque stelle – che non distingue tra destra e sinistra. Le cui politiche non sono riuscite a determinare quella svolta che è indispensabile per continuare a credere nel futuro del nostro Paese. Ma alla crisi delle forze politiche tradizionali non ha fatto seguito una proposta alternativa, capace di arrestarne la deriva. Dove la situazione era gestibile (Torino) la continuità ha garantito un minimo di governabilità. Ma in situazioni difficili (Roma) gli esiti sono stati catastrofici.

La fragile navicella italiana naviga quindi tra Scilla e Cariddi. Se cresce la domanda interna, il vincolo della bilancia dei pagamenti, ne strozza, prima o poi, lo sviluppo. Se si punta sull’estero, comprimendola, il Pil boccheggia. I prezzi ristagnano. Il nodo del debito pubblico si trasforma in un cappio che spinge verso l’ulteriore deflazione. In una spirale senza via d’uscita. Uscire da queste sabbie mobili non sarà facile. Occorre una strategia di medio periodo, alla cui confezione è bene utilizzare il tempo che resta. Per presentarsi al corpo elettorale con una proposta credibile.

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