Alla vigilia del 25 aprile di otto anni fa, Silvio Berlusconi propose di trasformare la Festa della Liberazione in Festa della Libertà (con la maiuscola), per aprire una nuova pagina di pacificazione nazionale che riconoscesse anche le ragioni dei repubblichini. L’idea suscitò violente polemiche, e fu rapidamente (e giustamente) accantonata. Ho ricordato l’episodio non per tornare sopra una diatriba che ormai ha fatto il suo tempo, ma per domandarmi se la libertà possa essere considerata un valore, sia pure il più alto e irrinunciabile. Non ne sono sicuro. Mi spiego subito meglio per non essere accusato di avere alzato il gomito.
Intendo dire che la libertà è, nel suo significato più profondo, la condizione perché questo o quel valore si dia. Può decidersi per il bene come per il male. Può perfino rovesciarsi nell’atto che la nega e l’annulla. Insomma la libertà, come ben sapeva il Dostoevskij lettore di Pascal, viene prima del bene e del male. Ma non vale l’obiezione per cui il male a chi lo fa si presenta, o è da lui presentato (come dai nostalgici di Salò), come un bene. Questa non è un’attenuante, ma un’aggravante, poiché alla libera scelta del male si aggiunge l’autoinganno. Pure, come ha scritto il filosofo russo (nato a Kiev) Nikolaj Berdjaev, la libera scelta del male è preferibile alla costrizione al bene. Nel senso che in essa c’è almeno un elemento positivo, in quanto può sempre dar luogo a un cammino di conversione al bene. Ma mi rendo conto che questo discorso difficilmente può essere accettato da chi utilizza la ricorrenza del 25 aprile non per illustrare, mantenendone viva la memoria storica, le nostre radici repubblicane, ma per rinfocolare scontri faziosi e odiosi pregiudizi (come nei confronti della Brigata ebraica).
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Albert Kesselring, comandante in capo delle forze armate di occupazione tedesche in Italia, processato nel 1947 per crimini di guerra (Fosse Ardeatine, Marzabotto e altre orrende stragi di innocenti), dopo il suo rientro in patria dichiarò pubblicamente che gli italiani avrebbero fatto bene a erigergli un monumento per non aver distrutto totalmente la penisola. A tale affermazione rispose Piero Calamandrei con una famosa epigrafe (datata 4 dicembre 1952, ottavo anniversario del sacrificio di Duccio Galimberti), dettata per una lapide “ad ignominia”, collocata nell’atrio del Palazzo comunale di Cuneo in segno di protesta per l’avvenuta scarcerazione del criminale nazista. L’epigrafe (che prende il nome dal suo incipit) recita:
Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.
Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.
Ma soltanto col silenzio del torturati
più duro d’ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.
Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA.