Sembrava che a Donald Trump non piacesse, invece oggi osserviamo che anche un tycoon, se diventa presidente degli Stati Uniti, è costretto a fare politica estera. Quindi, “America first” ogni volta che si presenta l’occasione. Se le occasioni non ci sono, il neopresidente è pronto ad andarsele a cercare. Infatti, si badi bene, occorre distinguere tra guerra e politica. Trump non sta né con Clausewitz, né con Lenin. Non accetta “la guerra come continuazione della politica con altri mezzi”, e non gli sta bene l’assioma che guerra e politica siano tutt’uno, sempre, in ogni circostanza.
Per Donald Trump esiste una terza linea d’azione, che però può essere esercitata solo da chi è certo di essere militarmente ed economicamente il più forte. Così, per prima cosa, dietro il bancone il nuovo barista ha messo nello shacker, assieme al ghiaccio, un pizzico di Siria, un po’ di Corea, qualche goccia di Afghanistan, ha agitato bene (ma non troppo) e se ne è uscito un nuovo cocktail. Prelibato per alcuni, accettabile per altri, decisamente sgradevole ed indigesto solo per pochi. Così agendo, Trump ha fatto politica, non ha fatto la guerra. E non desidera farla. Solo chi ha la forza è in grado di limitarne l’uso.
Riposizionata l’America sul quel piedistallo che non solo per lui, ma per una gran parte di americani che nolo hanno votato, si merita se non altro perché “predestinata”, ecco che può accadere che un attacco con 59 missili cruise, o il dispiegamento di una Forza navale con capacità nucleare, o il lancio della “madre di tutte le bombe” tra i monti dell’Afghanistan, diventino gesti “politici” ancor prima che militari. Soprattutto in questo momento, in cui Obama, Clinton e parte del vecchio establishment liberal-democratico continuano i tentativi di delegittimazione del nuovo presidente, non essendo ancora riusciti ad assorbire il trauma (inatteso?) della cocente sconfitta.
Gli osservatori più attenti avranno notato che sulla base di al-Shayat sono stati colpiti solo depositi ed hangarettes per ricovero velivoli siriani, ma le infrastrutture di volo, quelle usabili anche dall’aviazione di Putin, sono rimaste intatte. E’ evidente che tra i due ci saranno ancora scontri verbali, ma questa è diplomazia. Gli stessi osservatori hanno notato che la navigazione della flotta verso la penisola di Corea (ufficialmente per esercitazioni congiunte con Corea del Sud e Giappone) procede molto lentamente, di conserva con un dialogo mai interrotto con le Autorità cinesi. Idem per l’Afghanistan, dove l’attacco agli islamisti asserragliati nelle gallerie con ogni probabilità è stato un regalo assai gradito a quella parte di talebani che accetta di trattare con il governo.
Nella pratica, la mini-Yalta siriana reggerà, i russi continueranno a colpire ma non chiuderanno il dialogo, la Cina, che più di ogni altro teme il caos in Corea, prenderà le sue misure e l’attacco ai bunker della montagna afgana renderà più cauto anche il dittatore nordcoreano, che nei bunker ci vive. Il quale, come già il padre, ha sempre tirato la corda fino all’estremo solo per ricattare economicamente Cina e Stati Uniti. In altre parole, Trump ha capovolto il fronte sopra tutto per dimostrare al mondo la discontinuità con Obama e ridare all’America quella credibilità politico-militare che ormai andava appannandosi.
L’America non ha avversari confrontabili sotto il profilo economico e militare. Se, in termini di potenziale, se ne può individuare uno, questo non è certo la Russia, ma la Cina. Trump sa di rischiare, ha il coraggio di farlo e certamente, da navigato uomo d’affari, non supererà i limiti della convenienza. E’ così che, prima o poi, un bel mattino ci sveglieremo in un mondo nuovo, “diversamente” bipolare.