Come era facilmente prevedibile è risultato del tutto interlocutorio, e non privo di dubbi crescenti e di alcune asprezze polemiche, l’incontro al ministero dello Sviluppo economico fra sindacati metalmeccanici e il ministro Carlo Calenda sulla graduatoria stilata dai commissari dell’Ilva per la sua aggiudicazione, graduatoria nella quale, com’è noto, il raggruppamento Am Investco Italy – composto da Arcelor Mittal e Marcegaglia, cui in caso di aggiudicazione si unirebbe la Banca Intesa San Paolo – ha riportato un punteggio superiore a quello di AcciaItalia, la cordata concorrente costituita da Jindal, Arvedi, Cassa Depositi e prestiti e Del Vecchio.
Ai sindacati – che si rincontreranno di nuovo col ministro giovedì – sono stati comunicati gli esuberi previsti dalle due proposte che ammonterebbero a 4.800 per la cordata al momento in vantaggio, e 6.400 unità per l’altra guidata dalla Jindal: esuberi che Fiom, Fim e Uilm giudicano inaccettabili. La storia del Siderurgico ionico ci ricorda che già in altre fasi della sua attività ne furono diminuiti drasticamente con una singola operazione i livelli occupazionali, come ad esempio nel 1987, quando risultò oltremodo complessa l’azione del governo e della Regione per arginare – con il varo dell’Operazione Integrata Taranto – il declino produttivo dell’intera area. In quella circostanza molti lavoratori fruirono di prepensionamenti cofinanziati dalla Comunità Europea. Il governo, a sua volta, mise a punto entro il 1989 la legge 181 per la reindustrializzazione delle aree siderurgiche, costituendo il CISI per la promozione di nuovi investimenti di Pmi, e dando avvio con la Finanziaria Spi ad un’azione di attrazione di imprese che diede qualche risultato, portando in città anche la Vestas.
Ma oggi sarebbe gestibile socialmente una numero di esuberi così elevato, senza aiuti comunitari e in un periodo già di acuta sofferenza del tessuto dell’area industriale del capoluogo, considerando anche che larga parte dei lavoratori dell’Ilva ha un’età media di poco inferiore ai 40 anni, non risiede a Taranto ma in tutta la provincia, ed anche in un numero di circa 1.000 unità nel Brindisino? Situazione questa che amplificherebbe anche in un hinterland ben più vasto gli effetti negativi di una drastica riduzione occupazionale.
Gli esuberi vengono ipotizzati dalle due cordate, e da quella al momento in testa, alla luce dei piani produttivi presentati che prevederebbero per Arcelor di portare la produzione – oggi attestata a 5,7 milioni di tonnellate – entro il 2024 a 8 milioni che sarebbero aumentabili con lavorazioni aggiuntive di bramme importate a Taranto da altri siti del maggior gruppo acquirente. Ma ci si domanda: non è una scadenza temporalmente troppo remota il 2024 per tornare a 8 milioni di tonnellate di ghisa ? Al momento la produzione dell’impianto ionico a quanto è attestata ? Ha chiuso il 2016 con 5,8 milioni di tonnellate, ma entro la fine dell’anno a quanto si stima che possa arrivare? Il portafoglio ordini già acquisito a quanto ammonta e le trattative in corso cosa lasciano attendibilmente prevedere? Su tali quesiti i commissari potrebbero fornire risposte esaurienti.
Ed ancora: al momento, e presumibilmente ancora per diverso tempo – in attesa di tutti gli adempimenti previsti per il passaggio di proprietà ed anche del pronunciamento decisivo dell’Unione europea – la gestione sarà commissariale attraverso il management scelto da tale gestione. Bene, ma l’azione commerciale in corso, e a breve-medio termine, potrebbe essere molto aggressiva sul mercato interno e internazionale, andando così (potenzialmente) a scontrarsi in Europa con competitor fra i quali proprio Arcelor? O bisognerà invece, in attesa che si definisca il cambio di proprietà, mordere il freno per non turbare equilibri e relazioni fra l’Ilva, il suo sito di Taranto e i loro presumibili acquirenti ?
E il rapporto con le aziende locali dell’indotto che assicurano altri 3-3.500 posti di lavoro quale sarà da parte della cordata che si aggiudicherà il gruppo? Porterà i suoi manutentori da altri siti europei (o indiani con salari indiani), o aprirà un costruttivo confronto con le imprese del territorio che, a loro volta, saranno chiamate ad elevare i loro standard qualitativi, diversificando anche la clientela?
E il rapporto con lo scalo portuale da parte del raggruppamento aggiudicatario? Quando giungeranno le bramme per lo stabilimento arriveranno via mare, o viaggeranno su treni merci dai luoghi di provenienza? Lo scalo ionico – che il governo e il ministro Delrio hanno voluto potenziare nelle sue infrastrutture e sulle quali sono in corso lavori imponenti – per quanto stia puntando con forza alla polifunzionalità con l’eccellente gestione del Presidente Prete, rimane tuttavia un porto prevalentemente industriale che ritrova al momento nelle movimentazioni dell’Ilva e della raffineria i principali utenti dei suoi servizi.
Sarebbe opportuno inoltre che sull’intera vicenda in corso e sul presente e il futuro dell’Ilva si esprimessero – pur con tutta la cautela del caso – anche le comunità scientifiche del Politecnico di Bari e dell’Università di Lecce, potendo eventualmente assumere come punto di riferimento quanto già da tempo ha scritto il prof. Mapelli del Politecnico di Milano circa l’uso del preridotto di ferro, sia negli attuali altiforni e sia in forni elettrici che vorrebbe installare la cordata guidata da Jindal.
Infine, alla luce della grande complessità del processo di vendita in corso, ci sorge spontanea un’ultima domanda: quali sono le valutazioni delle maggiori forze politiche italiane sulla vendita dell’Ilva? Stiamo parlando della più grande fabbrica del Paese con i suoi tuttora 10.980 addetti e di un asset strategico per l’industria meccanica nazionale. E non ci riferiamo alle dichiarazioni pur apprezzabili di questo o quel parlamentare, ma a quelle degli organismi dirigenti in carica dei partiti italiani, o almeno di quelli più grandi.
Il Pd, ad esempio, essendo tuttora la maggiore forza di governo, quale valutazione esprime e soprattutto quale ritiene debba essere il futuro del gruppo siderurgico? Renzi da Presidente del Consiglio si è battuto per la sua difesa, è doveroso riconoscerlo. Ed ora, tornato segretario del partito, cosa ritiene, magari convocando la Direzione del PD, che si debba fare? E Berlusconi con la sua Forza Italia? E il Movimento 5 stelle?