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Conviene davvero all’Occidente distruggere l’Isis?

CARLO JEAN, Isis, iran

Gli attentati in Occidente – in particolare quelli attribuiti all’Isis – sono effettuati soprattutto da “lupi solitari” o “terroristi fai da te”, radicalizzati nelle carceri o su Internet, organizzati talvolta in reti poco strutturate, per renderne più difficile l’individuazione. Le perdite e i danni provocati dai loro attentati sono trascurabili, dati i rudimentali addestramento e armamento di cui dispongono. Essi hanno però un grande impatto mediatico. Sia l’Isis che al-Qaeda sfruttano la vulnerabilità psicologica delle opinioni pubbliche occidentali, senza che l’Occidente abbia saputo dotarsi di un’adeguata cultura della sicurezza e di un’adeguata strategia comunicativa antiterroristica. La vulnerabilità è maggiore in Italia, anche per l’eccitazione che ogni azione terroristica provoca nei media e la tendenza di questi ultimi di accentuare i suoi aspetti più drammatici. Minore nel Regno Unito e in Francia, nella quale l’attentato dei Champs Elisés non ha avuto riflessi di rilievo sulle elezioni, a differenza di quanto avvenuto nelle elezioni spagnole del 2004, per errori di comunicazione del governo.

La situazione potrebbe aggravarsi con il ritorno dei foreign fighters nei loro Paesi d’origine. Sono elementi induriti e addestrati, che certamente si manterrebbero in contatto fra loro, come fanno tutti i reduci. Potrebbero creare reti in condizioni d’effettuare attentati di grandi dimensioni, difficilmente prevedibili, sebbene le reti siano individuabili e quindi neutralizzabili più facilmente di quanto lo siano i “lupi solitari”. Malgrado la loro maggiore efficienza, le forze di sicurezza continuerebbero a incontrare difficoltà nell’infiltrare in esse propri agenti, unica misura in grado di prevenire attentati. I foreign fighters di ritorno disporrebbero poi di armi più efficienti, forse anche di aggressivi biologici, chimici o radiologici. Il loro impiego seminerebbe un panico più giustificato di quello degli attuali attentati, anche perché i loro effetti sarebbero persistenti nel tempo e non percepibili dalle popolazioni. Dovrebbero essere aumentate le misure di sicurezza, con conseguenti costi e contrazioni delle libertà civili nei nostri paesi.

Gioca al riguardo il fatto che esiste un’asimmetria rilevante terrorismo e antiterrorismo, fra l’attacco e la difesa. Le forze di sicurezza devono “vincere” sempre e ovunque. Il terrorismo ha la scelta del luogo e del tempo in cui effettuare un attentato. Può realizzare la sorpresa. Per esso è sufficiente “vincere” una volta sola. I costi umani ed economici dell’antiterrorismo aumenterebbero a livelli inaccettabili. Potrebbero essere ridotti solo combinando le misure difensive con quelle offensive. Ma le reti non possono essere attaccate essendo immerse, come la criminalità organizzata, all’interno delle società e ancor più difficili da infiltrare. Oggi invece l’Isis e i gruppi regionali che fanno capo ad al-Qaeda, hanno un territorio. Possono quindi essere colpiti. I foreign fighters presenti in entrambi dovrebbero essere eliminati prima che facciano ritorno ai loro paesi. Una volta che siano tornati la loro neutralizzazione diventa più difficile. Finché sono in Medio Oriente e nel Sahel possono essere eliminati anche i loro capi. In Occidente può esserlo solo la manovalanza, più disposta a morire dei primi. Solo le “anime belle” possono pensare che sia possibile “de-radicalizzarli”.

Per tale motivo molti pensano che sia errata la strategia dell’Occidente che dà priorità alla distruzione dell’Isis e ai miliziani di al-Qaeda presenti soprattutto in Siria. La distruzione dell’Isis aggraverebbe i problemi di sicurezza in Occidente. Con la perdita dei territori e la frammentazione in reti dei miliziani, sarebbe più difficile colpire le reti terroristiche e prevenirne gli attentati. Le reti sarebbero più resilienti. La sopravvivenza dell’Isis come proto-Stato e l’evoluzione di al-Qaeda verso la stessa formula organizzativa consentono all’Occidente di eliminare il più grande pericolo – quello dei foreign fighters – in Medio Oriente e nel Sahel, diminuendo la pericolosità del loro massiccio ritorno in Europa. L’obiezione che viene fatta è che, in tal modo, si consentirebbe alla loro efficace propaganda di attrarre nuove reclute. Il collasso del Califfato avrebbe, come affermato da Paolo Gentiloni, un alto significato simbolico. Dimostrerebbe l’inconsistenza della “profezia di Maometto”, base dell’escatologia e della strategia sia dell’Isis che di al-Qaeda. Eroderebbe, respingendolo nell’Islam profondo mito del Califfato e del ritorno alle origini e alla purezza e forza dell’Islam.

A parer mio, è impossibile che il “mito” possa essere distrutto dalle bombe. Il radicalismo di taluni gruppi islamici non può essere estirpato, se non da un’azione condotta all’interno dell’Islam, ad esempio dall’Università al Azhar. Il mito è sopravvissuto per millecinquecento anni. Ci si dovrebbe limitare a diminuire i rischi che corre l’Occidente. Occorre evitare che essi aumentino con il ritorno dei foreign fighters, rinunciando alle fantasie obamiane di convertire l’Islam. Finché rimarranno a combattere, i foreign fighters possono essere massacrati sia dai nostri bombardamenti, dai drones e dalle forze speciali, sia dagli sciiti e dai curdi. Il vantaggio che ci offre la sopravvivenza dell’Isis supera, a parer mio, gli inconvenienti che essa comporta, beninteso per l’Occidente. Il “gioco vale quindi la candela”. Insomma, le priorità strategiche occidentali della lotta al terrorismo andrebbero riviste, tanto più che una strategia di logoramento dell’Isis e di al-Qaeda fuori dai territori occidentali diminuisce la necessità dell’adozione di misure di sicurezza, restrittive delle nostre libertà.

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