Anche quest’anno sarò alla marcia per la vita. Perché sono viva, e questo non era affatto scontato. Sono stata chiamata alla vita, tra le infinite possibilità è successo a me, e ne sono grata a Dio e ai miei genitori che gli hanno detto di sì. Ci sarò perché voglio esprimere la mia gratitudine e dire che se siamo vivi è perché qualcuno ci ha amato.
Perché la vita è una cosa molto seria, visto che è eterna, e cerco di giocarmela seriamente. Perché la vita dei nostri figli ha benedetto la nostra vita, e di questo miracolo ancora non mi capacito, e continuo a stupirmi (ultimo biglietto della festa della mamma: “mamma ti adoro, ma sei un po’ troppo affettuosa”) e glielo dico ogni volta che li guardo. Va be’, quasi ogni volta, siamo onesti: quando non grugniscono e non seminano rifiuti.
Perché spero che contribuisca a mantenere viva nella comunità la consapevolezza che una vita è sempre comunque meglio che venga alla luce, quando c’è. Non è che se la ammazzi non c’è più, è solo che non la vedi, ma c’è, e non si può non farci i conti.
Perché spero di contribuire ad annunciare che ogni vita ha delle risorse incredibili, nasce con un bagaglio meraviglioso di energia e di possibilità – chissà quanti innovatori santi romanzieri campioni, amici simpatici allegri buoni sono stati abortiti nel mondo.
Perché uno prima di avere figli pensa che sia faticoso cambiare l’acqua al pesce rosso, poi tira fuori energie e risorse che non sognava di avere, e noi marciamo per annunciare questa speranza che ogni vita porta con sé.
Perché sogno che una mamma che non ce la fa a tenere suo figlio si senta incoraggiata da questo popolo, che non si limita a marciare, ma spende parte delle sue energie quotidiane (alcuni la parte più grande) nell’aiutare concretamente la vita, nei centri aiuto alla vita e in tante strutture che si mettono al fianco delle madri.
Perché quasi tutte le donne che conosco e che hanno abortito mi hanno detto di non essersi rese conto, al momento, di cosa stessero facendo, e sarebbe bello se la nostra marcia facesse fermare qualcuno, anche solo perché vede passare il corteo, e gli suscitasse qualche dubbio.
Perché è un popolo di gente bella e generosa, di gente informata seriamente, che non si fa raccontare le balle dai giornali, come le bufale sull’obiezione di coscienza dei medici abortisti (problema che in Italia non esiste).
Perché è un popolo di amici, anche quando non si conoscono. Perché, è vero, l’aborto e le pillole abortive sono ormai entrate nella mentalità comune, e l’aborto non è quasi mai una risorsa estrema in caso di pericolo per la donna – come vuole la legge – ma uno strumento di autodeterminazione della donna, che però quando è mamma è mamma, e lo sarà per sempre, anche dopo essersi liberata di suo figlio.
E perché, e questo è il motivo per cui ci dovrebbero essere tutti, la legislazione sul fine vita ha preso una piega mostruosa, e ad essere in pericolo è la vita di tutti i vecchi, i deboli, i malati, perché si sta affermando in tutto l’Occidente l’idea che ci sono vite degne di essere vissute e altre no, e questo anche a prescindere dalla volontà della persona malata. Una pena di morte resa culturalmente digeribile dal fatto che se quello che viene ucciso è malato, vive in condizioni disagevoli, allora va bene eliminarlo, perché il benessere è l’unico criterio di giudizio universalmente riconosciuto.
Ci sarò anche se so che questo non mi mette a posto la coscienza con tutte le altre cose che ognuno di noi deve fare per aiutare concretamente chi è nella necessità. Perché credo che annunciare una verità buona, vera per tutti al di là della fede – la vita è una cosa buona sempre e va aiutata – sia parte dei nostri doveri, un’opera di misericordia spirituale che non solleva da quelle corporali, ma che allo stesso tempo non si può non fare. È un segno, una profezia. È un mandato che ci ha consegnato Giovanni Paolo II, quando ci chiese di alzarci in piedi ogni volta che la vita fosse minacciata. E oggi con la legge sul fine vita è quello che sta succedendo.
Ci sarò anche se so che il Papa non dirà una parola per noi marciatori (ma se mi sbaglio, meglio!) perché, ormai si è capito, Francesco non ama i cristiani, per intenderci, combattenti culturali, che fanno questioni di principio e poi non incontrano le persone. Accolgo questa sua linea pensandoci seriamente, perché credo che sia un’occasione di conversione per me, un invito serio a essere sempre più attenta alle persone che ai principi. Ciò nondimeno, penso che sia necessario scendere in campo anche – e sottolineo mille volte anche – nell’affermare i principi, mentre, e sottolineo mentre, si cerca di mantenere aperto il cuore alle persone. Perché forse cinquanta anni fa eravamo alla difesa dello status quo, di una struttura borghese e benpensante, oggi invece siamo un piccolo gregge, una minoranza senza risorse soldi potere, assediati da un vuoto che rende necessaria anche la nostra presenza pubblica. Pacifica, umile, propositiva. In particolare è necessario essere presenti nella scena pubblica affermando dei principi quando si sta discutendo una legge, come avviene ora, come è avvenuto nel caso delle unioni civili. Perché in Parlamento se noi siamo generosi con il vicino di casa non se ne accorgono, se noi mandiamo un segnale pubblico forse sì (al referendum “ci siamo ricordati”).
Evangelizzare sorridendo e provvedendo alle necessità fisiche non può escludere la necessità di annunciare la verità, se è una verità così buona e universale per tutti, perché anche questa è carità. È necessario quando gli “altri” – chi sostiene che ogni vita è a disposizione di un giudizio – hanno tutte le televisioni, i giornali, le leve della cultura, i fondi, i finanziamenti del nuovo disordine mondiale, comprese le grandi strutture sovranazionali (vogliamo parlare dell’Onu che si permette di bacchettarci per un problema che secondo il nostro ministero della salute non esiste, cioè l’eccesso di obiezione di coscienza all’aborto?). Noi abbiamo solo questo. I social, i nostri bloggini, il passaparola, l’amicizia, i palloncini. E le strade di Roma sabato 20 maggio. Siamo un po’ naive, è vero. Sul piano culturale siamo perdenti. I soldi e il potere stanno da un’altra parte, nessuno è al nostro fianco. Ma la nostra battaglia non è contro nessuno. Soprattutto non è contro creature di carne e di sangue.
E la nostra forza, la vera rivoluzione, è che noi tifiamo per i nostri avversari. Non per le loro idee, ma per la loro vera felicità. E questo scombina parecchio il punteggio finale.