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Vi spiego l’eccellenza dell’Italia nel peace-keeping. Parla il generale Coppola

È quasi riduttivo il termine lectio magistralis per descrivere la lezione tenuta alla Link Campus sabato mattina dal generale Vincenzo Coppola, da pochi mesi vice Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, chiamato a parlare di peace-keeping. In primis per il pragmatismo derivante dalla sua lunga esperienza sul campo, prima a Sarajevo a capo del reggimento di carabinieri MSU (Multinational Specialized Unit), poi ancora alla guida dei carabinieri nella missione KFOR in Kosovo. Poi per l’estrema attualità dei temi trattati, tutt’altro che confinati nel dibattito accademico: se si restringe il campo alle sole missioni sotto l’egida dell’ONU, ad oggi più di mille militari italiani sono impegnati con i caschi blu a vigilare sulla pace in paesi destabilizzati, primo fra tutti il Libano.

Introdotto dal fondatore della Link Campus e più volte ministro negli ultimi trent’anni Vincenzo Scotti, che ha rivendicato fieramente il merito della sua università di “favorire il dialogo tra le istituzioni pubbliche, le imprese private e il mondo della ricerca”, il generale Coppola ha raccontato agli allievi del master “Intelligence e Sicurezza” come funziona il peace-keeping all’italiana.

“Negli ultimi venti anni il modo di garantire la sicurezza è completamente cambiato” spiega Coppola, ricordando poi i suoi trascorsi in Bosnia-Erzegovina, un paese martoriato dalla guerra dove lo stato di diritto non esisteva più. L’ONU si era sobbarcato il compito di riformare e addestrare la polizia bosniaca: “Il primo vero problema fu la Bosnia. Eravamo in tutto più di 80.000 militari, nel 1997 ci siamo resi conto che non c’erano le strutture per mantenere la sicurezza”. Per questo la NATO NEL 1998 “decise di aggiungere, oltre a una componente di forze di polizia MMA (Monitoring Mentoring Advisoring) già presente sul territorio, una struttura di 500 carabinieri e una compagnia della gendarmeria argentina” per debellare il primo ostacolo per la stabilizzazione del paese, lo strapotere della criminalità organizzata.

Nasceva in quell’occasione un concetto che negli anni sarebbe risultato fondamentale per le missioni di peace-keeping, quello dello “stability policing”, forze di polizia e militari fianco a fianco sul territorio per “educare”, e quando sia necessario sostituire temporaneamente, le polizie locali, spesso troppo deboli o troppo corrotte per contrastare la criminalità e garantire la sicurezza. Una necessità riaffermata nel “Rapporto Brahimi” dell’ONU nel 2000 e nello stesso anno nei Consigli Europei di Santa Maria da Feira e di Nizza. La sfida non è semplice: un conto è inviare un esercito, come è successo in Afghanistan o in Iraq, un altro conto è gestire con forze di polizia la transizione di un paese che esce dalla guerra. “Gli eserciti parlano tutti la stessa lingua, le forze di polizia no, perché sono profondamente radicate alla società, alla cultura e alla religione del paese in cui operano” spiega il generale dell’Arma, “Anche per noi che viviamo in Italia, fare polizia a Scurcola Marsicana non è la stessa cosa che farlo in piazza Duomo a Milano”.

Mentre parla il generale non riesce a nascondere un fremito di orgoglio per l’efficienza delle forze italiane, non per vanità ma per l’evidenza dei risultati ottenuti. Ad esempio solo l’ltalia nel mondo può vantare, a Vicenza, un centro di eccellenza dello stability policing, il CoESPU, che viene direttamente cofinanziato dagli Stati Uniti e in dieci anni ha addestrato più di 10.000 ufficiali di polizia. Se l’Italia dunque è già maestra nell’addestramento delle forze di polizia per il peace-building, la vera sfida all’estero rimane la lotta al crimine organizzato. La prima difficoltà che si incontra è quella di saperne dare una definizione comune: “Quando sono arrivato in Bosnia nel 2006 e ho chiesto informazioni, le autorità locali mi hanno risposto che da loro non esisteva il crimine organizzato. Persone che in Italia avremmo incarcerato come esponenti di organizzazioni mafiose lì erano considerati eroi di guerra, così come un eroe era considerato in Serbia il famoso criminale soprannominato ‘la tigre di Arkan’”.

Poi bisogna stare attenti nelle indagini a non oltrepassare il mandato ricevuto: “è necessario vedere se la missione lo consente, per molte missioni la raccolta di informazioni è vietata” ammonisce Coppola aggiungendo: “Se si va in un paese senza avere il mandato giusto, cosa se ne fa del criminale arrestato e delle prove raccolte? La sicurezza di un paese non è data dalle forze di polizia, ma da un sistema complesso che prevede il perfetto funzionamento di polizia, magistratura e sistema carcerario. Se uno dei tre non funziona gli altri due sono inutili”. Infine c’è il problema del coordinamento delle forze sul campo: “In Italia abbiamo la legge 121 del 1981, che evita ad esempio le indagini multiple sullo stesso caso”. Poi la stoccata al sistema francese, dove “questo coordinamento scritto non c’è. Quando ci furono gli attacchi di Parigi le forze speciali intervennero con due ore di ritardo”.

Oggi l’Italia già è impegnata nell’addestramento di polizia estero in paesi come il Gibuti, l’Afghanistan, l’Iraq, la Palestina, la Somalia. Rimane l’interrogativo dello scenario libico: data l’estrema instabilità politica e i conflitti interni, non è escluso che il governo italiano si impegni in futuro in Libia con un’operazione di peace-enforcing più che di peace-keeping, con tutti i rischi che questo comporterà.

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