“E’ troppo presto per dirlo ma tendo a escludere che Donald Trump, almeno per ora, possa finire sotto impeachment“. Parola di Rula Jebreal, giornalista e saggista, che la scorsa settimana ha introdotto l’intervento di Barack Obama a Milano, in occasione della terza edizione di Seeds&Chips, il vertice internazionale sulla food innovation (qui la gallery fotografica). In questa conversazione con Formiche.net, Jebreal – tra le altre cose commentatrice per il Washington Post – ha fatto il punto della situazione sul cosiddetto Russiagate, ma ha voluto subito mettere in chiaro un aspetto: “Non possiamo ancora dare un giudizio definitivo. D’altronde non siamo riusciti a ricostruire precisamente i fatti e, peraltro, tutte le persone in un sistema democratico devono essere considerate innocenti fino a che non vengono provate colpevoli. Ciò detto, ci sono numerosi elementi che meritano di essere sottolineati“.
Partiamo dall’ipotesi impeachment. Perché esclude che possa esservi nei confronti di Trump?
Perché è necessario il voto in tal senso di tutte e due le Camere di cui si compone il Parlamento americano: entrambe però sono controllate dal Partito Repubblicano di cui Trump è espressione. Al momento non esistono le condizioni politiche perché i repubblicani si dichiarino favorevoli all’impeachment.
Ma non si diceva che tra il presidente Usa e il Partito Repubblicano non corresse buon sangue?
Ma un conto è dire una cosa del genere e tutt’altro, invece, schierarsi a favore dell’impeachment. E’ vero, tra i repubblicani vi sono alcune voci fortemente critiche e dure nei confronti di Trump, a partire dal senatore John McCain che ha parlato di episodi gravissimi. Ma sono convinta si tratti di casi isolati che non porteranno, stando così le cose, all’impeachment del presidente Usa.
Peraltro neppure Richard Nixon – il presidente dello scandalo Watergate – subì l’impeachment, salvo comunque dimettersi.
Esatto, l’unico impeachment si è registrato ai tempi dell’amministrazione di Bill Clinton ma fu bloccato dal voto contrario del Senato. Nixon, invece, lo evitò perché decise di fare un passo indietro prima. A proposito di Nixon, comunque, non mancano gli elementi che ricordano la vicenda Trump.
Quali?
Anche Nixon, al pari di Trump, licenziò il capo dell’Fbi. E anche Nixon interferì con un’indagine in corso.
Come valuta quanto sta emergendo a proposito del Russiagate?
Alcune notizie sono sconcertanti. Penso soprattutto a quanto dichiarato da James Comey, secondo cui Trump gli avrebbe chiesto di bloccare le indagini sul suo ex Consigliere per la sicurezza Micheal Flynn, e anche di affermare pubblicamente la sua estraneità ai fatti.
La nomina di Robert Mueller a Special Counsel come deve essere interpretata?
Senza dubbio come il segnale della sfiducia del sistema nei confronti di Trump, il quale ha solamente subito questo processo. La paternità della nomina – va ricordato – non è infatti del ministro della Giustizia Jeff Sessions, che, sfiorato dai sospetti, si è dovuto ricusare da tutta la vicenda. Vuol dire che l’alta amministrazione Usa si sta organizzando per fare piena luce su quanto accaduto. A Mueller spettano poteri di indagine molto incisivi e penetranti.
Questo senso di sfiducia, a suo avviso, in quale parte dell’establishment è più accentuato?
Nell’intelligence: hanno paura che Trump sia compromesso. Ciò significa temere che il presidente abbia con i russi legami tali da mettere a rischio la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. E non è affatto poco.
Giustificato?
Non spetta a me dirlo, però Trump aveva detto di non essere collegato alla Russia e poi è saltato fuori che il suo consigliere Flynn, il ministro della Giustizia Sessions e persino suo genero Jared Kushner – a sua volta advisor del presidente – hanno invece avuto qualche tipo di legame con Mosca. Oppure si pensi all’incontro con il ministro degli Esteri del Cremlino Sergej Lavrov e con l’ambasciatore russo negli Stati Uniti: Trump gli ha confidato informazioni secretate e classificate. O, ancora, sempre a Flynn, che ha svolto il lavoro di lobbista per la Turchia ricevendo anche mezzo milioni di dollari. Sono tutti fatti gravissimi.
Quanto erano importanti le informazioni che Trump ha fornito alla Russia?
Il presidente ha il potere di de-classificare qualsiasi tipo di informazione. Il problema è che ci sono operazioni militari e d’intelligence in corso in Siria, dove, inoltre, gli americani hanno una posizione ben distinta da quella della Russia. Certo, entrambi i Paesi combattono contro l’Isis, ma poi Vladimir Putin appoggia Bashar al-Assad mentre gli Stati Uniti lo osteggiano.
La diffusione di queste notizie così importanti e riservate come sta impattando sugli alleati non solo europei degli Stati Uniti?
Sul Washington Post di ieri ho contribuito a scrivere un approfondimento in cui si parla della reazione dei leader mondiali: oggi – per la prima volta nella storia – vedono gli Stati Uniti come una possibile minaccia alla stabilità globale. E lo stesso vale per moltissimi analisti d’intelligence europei e non, preoccupati all’idea di condividere informazioni con gli Usa. Un fenomeno tanto più grave se si considera che, nell’era della guerra al terrore, abbiamo l’obbligo di condividere le informazioni d’intelligence per prevenire gli attentati e arrestare i terroristi. Una lezione che gli Usa e il mondo hanno imparato dopo l’11 settembre ma che ora è stata messa fortemente a rischio. Trump potrebbe farci tornare all’epoca in cui si temeva di condividere le informazioni per timore che finissero nelle mani sbagliate.
Per i primi mesi del nuovo corso di Trump si deve dunque tracciare un bilancio fortemente negativo?
La situazione è caratterizzata da una paralisi politica senza precedenti. Il Paese non riesce a riprendere il cammino: continua a saltare da uno scandalo all’altro.
A proposito, in molti hanno criticato la scelta del presidente di inaugurare la stagione dei viaggi all’estero con una visita in Arabia Saudita. Che ne pensa?
Dopo l’11 settembre fu lo stesso Trump a dire che l’Arabia Saudita aveva contribuito in qualche modo all’attentato. Ma – adesso che è diventato presidente – ha deciso di recarsi prima di tutti in quel Paese, che è noto abbia finanziato in questi anni gli estremisti e i terroristi. Peraltro, il loro è l’Islam wahabita: il più stretto, il più conservatore, il più violento. Nella capitale dell’Isis – a Raqqa – vengono utilizzati gli stessi libri scolastici sauditi, perché condividono la medesima ideologia e la medesima teologia. Per queste ragioni ritengo si tratti di un segnale gravissimo. Il nostro approccio con l’Arabia Saudita è sempre stato di tipo economico, abbiamo chiuso gli occhi per troppo tempo in modo anche molto dannoso per gli Stati Uniti. Ma questa volta mi sembra troppo.
La scelta di Trump intensifica questa tendenza?
Certamente, è l’inizio di una sorta di abbraccio con i regimi. Basta pensare ai complimenti che ha riservato al presidente delle Filippine Rodrigo Duterte. O al fatto che al summit in Arabia Saudita parteciperà pure il presidente del Sudan Omar al-Bashir, incriminato dalla Corte penale internazionale dell’Aja per crimini di guerra e contro l’umanità. Trump è andato a incontrare i finanziatori dell’Isis e i violatori dei diritti umani.