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Vi spiego come si muove Trump fra Arabia Saudita, Israele e Iran. Parla Caracciolo (Limes)

LUCIO CARACCIOLO

Nella mattina di lunedì il presidente Donald Trump è arrivato in Israele, la seconda tappa del suo primo, importante viaggio all’estero. Trump e il suo staff sono ripartiti dall’Arabia Saudita, dove hanno trascorso i due giorni inaugurali del tour internazionale che toccherà tutti i principali alleati americani (sarà poi infatti a Bruxelles a un summit Nato e a Taormina per il vertice del G7, prima ancora passerà per il Vaticano).

LA CHIAVE ANTI-IRANIANA

Lo spirito ‘ponte’ di questi primi giorni del viaggio di Trump è in un’immagine: il volo che ha portato il presidente da Riad all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv non è mai esistito, dato che i due Paesi hanno relazioni diplomatiche bloccate dalle annose vicende arabi/israeliani, ma l’Air Force One potrebbe essere stato l’apripista per un collegamento più ampio. Sauditi e israeliani potrebbero trovare in Trump, potente alleato comune, un elemento di contatto che apre a una collaborazione regionale: Trump è stato chiaro durante l’intervento al fianco del presidente israeliano Reuven Rivlin, i Paesi arabi devono trovare “una causa comune” con Israele. Qual è questo punto di contatto? “Potrebbe essere il contenimento terroristico, potrebbe essere la gestione degli affari regionali, ma c’è anche un altro punto di convergenza profondo: il contrasto all’Iran”, spiega in una conversazione con Formiche.net Lucio Caracciolo, direttore della rivista di geopolitica Limes. “Individuando nell’Iran ‘il paese del male’ Trump abbraccia una chiave retorica che incontra sia i Paesi sunniti del Golfo, sia Israele – spiega Caracciolo – La Repubblica islamica diventa un potenziale obiettivo bellico individuato da Trump, qualora la sua amministrazione dovesse sentire il bisogno di una guerra dall’altra parte del mondo”.

FUTURI EQUILIBRI REGIONALI E LA LINEA TRUMP

“La Casa Bianca di Trump sembra davvero intenzionata a cambiare la propria postura in Medio Oriente verso una sorta di disimpegno mascherato. Armare l’Arabia Saudita (un impegno, con grossi interessi dietro) significa infatti anche dare maggiore possibilità ai partner locali sul gestire le varie dinamiche (il disimpegno). Per questo possiamo dire che la visita si colloca di più su un solco nazionalistico. Certo, è evidente che in questo momento, in cui Trump governa e si stacca dai claim elettorali, si rende conto che l’America, come super potenza, non può perdere il contatto con gli alleati e non avere rapporti. Però sembra che Trump voglia lasciare indietro l’idea di impero rispetto a quella di nazione”. Ci saranno movimenti da parte di altri attori? Per esempio, la Russia? “Mosca continuerà a perseguire i propri interessi in Medio Oriente, che sono di tipo strategico, economico-militare, petrolifero. I russi lo faranno cercando di intercettare i sauditi, senza sconvolgersi troppo da questo nuovo approccio americano”.

LA VISITA SAUDITA

La visita saudita di Trump è stata proficua. Washington ha incassato un maxi assegno da 109 miliardi di dollari, parte, a scadenza immediata, di un deal da 350 miliardi dilazionati nei prossimi dieci anni: “Sono soldi che Riad ha investito in tecnologia militare americana, ed è stato lo stesso Press Sec a vantarsi che si tratta del più grosso singolo accordo sugli armamenti della storia americana. E tra le citazioni più riprese c’è Trump che definisce ‘beautiful’ gli equipaggiamenti militari che gli americani hanno venduto ai sauditi”. Uno dei più importanti produttori al mondo, la Lockheed Martin ha detto che l’accordo è perfettamente in linea anche con la Vision 2030, il piano di differenziazione economica (dal petrolio) saudita per i prossimi anni, perché creerà anche per Riad svariati posti di lavoro qualificati in un nuovo settore, e lo stesso, moltiplicato, succederà negli Stati Uniti, in pieno solco “America First” e “Make America Great Again”. All’inizio di maggio il genero del presidente, Jared Kushner, marito della figlia prediletta Ivanka e consigliere potentissimo della Casa Bianca, dopo una visita di una delegazione saudita, aveva personalmente contattato Marillyn Hewson, la Ceo di Lockheed Martin, per chiederle di abbassare il prezzo del Terminal High Altitude Area Defense (THAAD), sistema di protezione anti-missilistico, rientrato tra gli acquisti sauditi (Hewson era a Riad nei giorni scorsi).

TRUMP DA CAMPAGNA E QUELLO DI GOVERNO

Secondo gli insider che hanno parlato con i media americani, il ruolo di Kushner è stato fondamentale per la conclusione degli affari più corposi. il genero-in-chief sta portando avanti i negoziati da mesi, cercando tra l’altro di rassicurare i sauditi che le posture anti-islamiche di Trump erano soltanto richiami da campagna elettorale (per esempio: il 17 febbraio scorso, durante un comizio davanti ai suoi fan infervorati, l’attuale presidente accusò il governo saudita di essere il mandante dell’attentato del 9/11; nell’ultimo weekend con quello stesso establishment governativo ha trascorso due giorni strategici, tra sorrisi e strette di mano, ma già dal 2015 gli uomini di Trump lavoravano per spiegare ai Saud che linea che il candidato avrebbe tenuto ‘una volta alla Casa Bianca’ sarebbe stata ben diversa da quella della campagna elettorale). “È del tutto evidente che gli Stati Uniti considerano l’Arabia Saudita un alleato cardine, e queste pur considerando che diversi dei terroristi dell’11 Settembre erano di origine saudita, aspetto che la dice lunga sui collegamenti di alcune realtà saudite con il terrorismo”, aggiunge Caracciolo.

L’ASSE CONTRO IL TERRORE

L’accordo militare è una porzione consistente (da aggiungere: altri 20 miliardi di dollari che il fondo sovrano di Riad investirà in infrastrutture da costruire in America) di una più ampia visione strategica che Trump e i sauditi hanno spinto esplicitamente negli ultimi due giorni. In un discorso tenuto davanti alla casa regnante, il presidente americano ha spiegato che combattere il terrorismo è “una lotta tra il bene e il male”, abbandonando le sparate di campagna elettorale contro il mondo musulmano, inteso per intero, e alleggerendo la propria posizione contro l’Islam radicale – come quello wahhabita, la confessione estremista saudita, di fondo non troppo differente da quella radicale dello Stato islamico. Nello speech Trump non ha mai usato i termini “terrorismo islamico radicale”, come gli aveva consigliato il capo del National security council, il normalizzatore HR McMaster già dai tempi del suo insediamento (e del discorso di Trump davanti al Congresso riunito); e infatti McMaster ha sottolineato questo aspetto durante un’intervista a “The Week” della ABC. (Curiosità: il discorso saudita di Trump è stato scritto da Stephen Miller, che è lo stesso, influente, consigliere politico con un ufficio nella West Wing che ha curato la stesura dei due muslim-ban, a testimonianza di come l’amministrazione americana può incarnare ruoli dual-use).

TRUMP CONTRO L’IRAN (?)

“Non sono venuto qui a darvi lezioni, non sono io a dirvi come dovete vivere. Ma occorre una coalizione internazionale contro il terrorismo. Le nazioni del medio oriente non possono aspettare che sia l’America a sconfiggerlo. Dovete battere voi questo nemico che uccide in nome della fede” ha detto Trump. E ancora più esplicito: “Questa non è una battaglia tra fedi diverse, sette diverse o civiltà diverse”, ha detto Trump; questa è una battaglia “un’ideologia malvagia” che cerca di “cancellare la vita umana” in nome della religione, e coloro che cercano di proteggere la propria fede. L’estrema sintesi politica dell’intervento sta nella richiesta di creare una coalizione di nazioni regionali che si faccia carico di combattere il terrorismo: nei giorni prima della partenza si era parlato della possibilità che Trump desse sostegno esplicito al progetto saudita di creare una cosiddetta “Nato-Araba”, l’invito alla coalizione, e la sponsorizzazione di questa, si inquadra in tal senso. Caracciolo fa notare che anche in questo caso c’è la sottolineatura politica anti-Iran, tenuto fuori fuori – concetto “che piace sia ai Paesi sunniti del Golfo sia agli israeliani” –, perché, ha detto Trump, “alimenta il fuoco dei conflitti settari” (intende le situazioni in Yemen, ma anche a quelle meno appariscenti in Libano) ed è colpevole, ha aggiunto, di aver causato “l’inimmaginabile tragedia della Siria”. Però, ricorda Caracciolo, “sullo sfondo di questa retorica resta un fatto: gli Stati Uniti non sembrano così intenzionati ad abbandonare l’accordo nucleare obamiano con Teheran, forse perché è un’intesa multilaterale, molto più perché lo ritengono un punto importante”.


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