Inutile girarci intorno, accampare alibi e giustificazioni, minimizzare. È stata una sconfitta. Dalle proporzioni che nessuno osava immaginare alla vigilia del voto, neppure dopo il disastroso confronto televisivo del 3 maggio scorso. Marine Le Pen, che non aveva nessuna chance di vittoria, poteva “sfondare” il muro del 40% e, pur rimanendo sulla soglia dell’Eliseo, presentarsi ai francesi come l’alternativa credibile e perfino inattaccabile al potere che intende contestare incarnato da Emmanuel Macron. Certo, undici milioni di voti sono tanti, ma ancor di più sono quelli che hanno rifiutato tanto lei che il nuovo presidente: sommando il 25% di astenuti ed il 13% di schede bianche o nulle si arriva al 38%, quattro punti in più dei suffragi ottenuti dalla leader dei “sovranisti” francesi. Ciò vuol dire che non è riuscita a convincere coloro che più radicalmente contestano il sistema, né quanti tra gollisti, nazionalisti ed elettori dell’estrema sinistra avevano, dopo il primo turno, mostrato di appoggiarla. Ecco, la magica percentuale del 40% non è svanita in un giorno, ma in quindici giorni. Ed allora sarà bene che la Le Pen analizzi fino in fondo, spietatamente, le ragioni di una “vittoria”, quale sarebbe stata la sconfitta meno penalizzante, che l’avrebbe consacrata come indiscussa leader dell’opposizione.
Subito dopo essersi congratulata con Macron, la Le Pen ha annunciato che cambierà la conformazione, la struttura e perfino la denominazione del suo partito nella certezza che allargando la base del consenso possa ambire nell’immediato a conquistare la maggioranza parlamentare e nel futuro l’Eliseo che continuerà a guardare da lontano. Il suo obiettivo è attirare i Républicains scontenti e frastornati e gli ex-gollisti di Dupont-Aignan che le avevano promesso l’appoggio che poi in gran parte non le hanno dato, ma anche di avvicinare quell’elettorato della gauche che non si riconosce più nel grande parolaio francese, Jean-Luc Mélenchon il quale, con tutta evidenza, non ha capito l’importanza di allargare il fronte anti-mondialista, al di là delle idiosincrasie comprensibili che in questo caso era necessario mettere da parte.
L’operazione a cui si accinge la Le Pen è interessante, coraggiosa, intelligente, ma tardiva e affrettata se portata avanti in funzione delle legislative di giugno. Avrebbe dovuto incominciare a pensarci almeno due anni fa, inserendosi nelle diatribe tra le varie correnti che stavano sfasciando il partito di Sarkozy e di Fillon. Si sarebbe dovuta concentrare sugli elementi di “vicinanza” piuttosto che su quelli di divisione tra il suo elettorato e quello dei gollisti, mettendo da parte una volta per tutte il vecchio armamentario rivendicazionista estraneo soprattutto alle nuove generazioni.
Avrebbe dovuto riunire, innanzitutto culturalmente (operazione improba per chi ha sempre conferito alla cultura scarsa rilevanza) tutte le destre francesi cercando un minimo comun denominatore che potesse farle convivere al di là dei retaggi storici che si portano appresso dalla fine della Seconda guerra mondiale e, in verità, anche da prima. Avrebbe avuto bisogno di un fronte intellettuale di sostegno, sempre restio – e non certo per colpa della Le Pen – a sporcarsi le mani con la politica. Un Attali di destra, per essere chiari, lo si sarebbe potuto trovare se soltanto le reciproche diffidenze tra il Front national ed il mondo intellettuale che poteva essere il suo naturale riferimento non si fossero orgogliosamente e stupidamente rinnovate anche nel corso di questa ultima campagna elettorale.
Certo, il tema dell’euro era e resta decisivo, ma c’è modo e modo di affrontarlo. Intanto non può essere il cavallo di battaglia prioritario per nessuno, ma soltanto la conseguenza di una politica a più vasto raggio concernente il rilancio dello Stato-nazione, la revisione del welfare, l’attacco alle nuove povertà (emerse non soltanto per responsabilità della moneta unica), e al declino demografico francese (ed europeo), l’accentuazione dei temi identitari che sottostanno e giustificano il globalismo, l’ideologia illuminista in primis, rivendicata da Macron nel suo discorso al Louvre come fondamento della “identità” francese.
L’euro ha azzoppato la Le Pen, non soltanto perché poco sentita come tematica propagandistica dal popolo la promessa di un suo abbandono, recepito invece da chiunque come problematico e denso di incognite, ma perché ne ha parlato confusamente, con approssimazione, confondendolo spesso con l’Ecu, innescando perplessità sulla circolazione della doppia moneta. Si sarebbe dovuta limitare a proporre una discussione sugli effetti dell’euro e sui Trattati che hanno istituito l’Unione europea piuttosto che promettere un referendum sulla fuoriuscita della Francia, la Frexit, che ha spaventato molti dei suoi possibili elettori. Un po’ più di flessibilità non avrebbe guastato.
Rilevare i disastri originati dalle politiche monetarie di Bruxelles non comporta la denuncia dell’Unione in maniera scomposta – ed è questo il limite di tutti i “sovranisti” d’Europa. Bensì formulare critiche circostanziate e chiedere la revisione degli impegni comunitari che possono avvenire soltanto con una revisione degli accordi stipulati a Maastricht e ad Amsterdam. La sovranità è un’altra cosa e può convivere con la necessaria interdipendenza tra gli Stati e le nazioni. Macron l’ha capito e non perché è un tecnocrate, apprezzato per questo anche da chi l’Unione non la ama: in quel suo 66% ci sarà pure qualcuno “leggermente” critico rispetto alle politiche comunitarie.
La preoccupazione della Le Pen in questo momento è come proiettare il 34% nelle legislative di giugno. E si rende certamente conto che la partita sarà diversa. Intanto alle politiche vanno in ballottaggio i candidati che ottengono almeno 12.5% . È dunque più che probabile che la competizione non sarà bipolare, tra “patrioti” e “mondialisti”, come frettolosamente ha detto la Le Pen. Dovunque i suoi candidati dovessero arrivare primi, scatterebbe un piano di desistenza peraltro già sperimentato nelle elezioni precedenti. Quanti deputati potrà portare all’Assemblea nazionale? Non tanti in numero tale da condizionare la maggioranza di Macron alla quale faranno riferimento non soltanto gli eletti di En Marche!, ma anche gollisti repubblicani, i deputati di Bayrou -probabile primo ministro – socialisti che a livello locale non sono spariti del tutto. Poteva essere il primo partito il Front national (o come si chiamerà) se la sua leader avesse colto un successo maggiore, ma adesso il senso di scoramento comprensibile dei suoi elettori accompagnato dall’onda presumibilmente lunga del partito di Macron, cambia le prospettive.
Resta il malessere della Francia profonda. Marine Le Pen sarà capace nei prossimi anni di tradurlo in consensi senza premere l’acceleratore sulla paura, ma piuttosto sulle energie positive di un Paese che ha bisogno di una politica nazionalista (altro che demonizzarla: si sciacquino la bocca coloro che ne parlano senza sapere che cosa sono patriottismo e nazionalismo…), critica dell’Unione europea, ma aperta alle istanze di una sua inevitabile riforma.
Un altro partito è necessario per dare voce a tutto questo. Il problema è “inventarlo”. Operazione tutt’altro che semplice. Vaste programme, avrebbe detto il riscoperto generale Charles De Gaulle.