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Ecco come il Movimento 5 Stelle di Grillo invoca lo Stato in Telecom-Tim

paritarie disuguaglianze Rousseau Movimento 5 Stelle

Saranno anche passati 20 lunghi anni, ma la domanda rimane sempre la stessa. Ma alla fine, Telecom era meglio tenersela o metterla in mano ai privati? Dal 1997, anno dell’avvio della privatizzazione del gruppo telefonico ex Sip, di acqua sotto i ponti ne è passata. Eppure oggi buona parte dell’opinione pubblica è convinta che nell’era del cyberterrorismo è meglio avere una compagnia tlc pubblica, secondo il Movimento 5 Stelle. Soprattutto se la proprietà cambia un po’ troppo spesso bandiera: gli spagnoli di Telefònica prima, i francesi di Vivendi adesso. Un nuovo dibattito si è acceso ieri pomeriggio al Senato, nel corso della presentazione del libro Goodbye Telecom, di Maurizio Matteo Dècina consulente tlc per Ernst&Young con un passato in Telecom, alla quale hanno preso parte pezzi di industria tlc (Vito Gamberale, ex manager di Sip e creatore di Tim) i deputati grillini Roberta Lombardi e Paolo Niccolò Romano e il presidente dell’associazione dei piccoli azionisti di Telecom-Tim (Asati), Franco Lombardi.

RIDATECI IL TESORO

Il punto di partenza del dibattito organizzato dal Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo è stato questo: far entrare i privati in Telecom è stato un errore madornale, molto meglio continuare ad affidarsi ad un robusto azionista pubblico, Tesoro o Sviluppo Economico che sia. Palla presa al balzo dalla pentastellata Lombardi, visto e considerato che il Movimento Cinque Stelle ha visto sempre col fumo negli occhi l’avvento di Vincent Bollorè, azionista al 23,9% di Tim, nel gruppo telefonico. “E’ inutile che ci giriamo attorno. Ogni Paese industrializzato che si rispetti c’è un big tlc in mano allo Stato”, ha attaccato Lombardi. “Qui invece, in piena era cyberterrorismo, accade l’esatto contrario. Che cosa vogliamo fare? Noi da sempre abbiamo respinto ogni ipotesi di privatizzazione”.

SE LO STATO SI VOLTA (DALL’ALTRA) PARTE

Una visione sostanzialmente condivisa anche da Vito Gamberale, dirigente industriale di lungo corso e che l’ex Telecom la conosce bene. Il problema sta nell’assenza di una vera politica industriale “senza la quale vicende come quelle di Telecom possono proliferare”, ha spiegato Gamberale, che si è dilettato nel dispensare pillole di storia industriale italiana. Sotto accusa c’è in particolare un certo disinteresse da parte dei vari governi succedutisi in questi venti anni verso questioni strategiche, come per l’appunto quella dell’ex monopolista telefonico. “Ho avuto più volte l’impressione che lo Stato si sia girato dall’altra parte mentre Telecom andava incontro a cambiamenti della propria compagine azionaria”.

OBIETTIVO PUBLIC COMPANY

L’autore del libro, ritirato dalle librerie dall editore in seguito ad un atto di citazione milionario ritenuto fortemente intimidatorio dal M5S, per via delle non trascurabili spese legali per difendersi dai procedimenti civili (citazione poi ritirata e libro ripubblicato con altro editore e presentato al Senato dal Movimento Cinque Stelle), ha preferito guardare al futuro e parlare di quello che dovrebbe essere fatto piuttosto che degli errori del passato. “Una società di pubblica utilità se non può essere pubblica allora è meglio che sia una public company“. Il riferimento di Dècina è a quel modello anglosassone in cui grandi compagnie non hanno un azionista di controllo, ma una proprietà diffusa e frammentata. “E’ meglio affidare un’azienda così strategica a gente sconosciuta oppure a chi chi ha messo i soldi come i tanti azionisti?” si è chiesto Dècina. “Io mi auguro che si possa arrivare ad una vera e propria partecipazione dei dipendenti (tipica della public company, ndr), perchè la pubblica utilità di un’azienda trovi spazio nel consiglio di amministrazione”.

SILENZIO COLPEVOLE

Non poteva ovviamente mancare il punto di vista del vulcanico presidente dei piccoli azionisti, Lombardi: “Viviamo in una situazione delicata, quasi una guerra con i francesi che non si sa se dovrà scendere o meno in Telecom“. Ma “a parte questo, dove stava il governo mentre Vivendi entrava nel gruppo? Nessuno ha detto nulla, tutti hanno taciuto. E alla fine non è rimasto nemmeno un grande azionista. Anzi uno sì, cioè noi di Asati”.

LA PARTITA FRANCESE

Ma proprio nelle stesse ore del convegno, al Senato, il fronte Telecom si infiammava su due questioni. La prima, riguardante i francesi azionisti di Vivendi, che hanno impugnato dinnanzi al Tar la delibera dell’Agcom che impone a Bollorè una scelta: o scende in Tim oppure in Mediaset dove la media company transalpina ha il 29,9%. E questo in virtù della Legge Gasparri che vieta le concentrazioni tlc-tv. Vivendì si è tuttavia detta disposta a rispondere all’Agcom, dicendosi pronta a ottemperare alla delibera attraverso il congelamento dei diritti di voto oltre il 9,9% nella televisione della famiglia Berlusconi.

LA QUESTIONE BANDA LARGA

L’altro fronte, non meno caldo, riguarda la posa della fibra ottica, cioè dell’internet ultraveloce, effettuata tramite gare pubbliche. In campo ci sono diversi attori, ma due sono i pesi massimi. Open Fiber, società di Enel e Cassa depositi e prestiti controllata dal Tesoro, dunque con la presenza dello Stato, e per l’appunto Tim. Che non solo punta a fare concorrenza a Open Fiber ma anche a bruciare le tappe per la cablatura. Ieri sera però è arrivata la precisazione del governo, per mezzo del ministero dello Sviluppo. Il messaggio è chiaro. Chi vuol investire è il benvenuto, ma guai a sparigliare le carte. Come noto di recente Open Fiber, la società controllata pariteticamente da Enel e Cdp Equity, ha vinto la gara Infratel da 1,2 miliardi di euro per la cablatura di oltre 3700 comuni in tutti Italia. Alla gara non ha partecipato Telecom, che in passato ha già contestato anche legalmente (ma finora senza esiti) queste gare di Infratel per le aree bianche (a fallimento di mercato). Telecom ha però confermato l’intenzione di investire nella fibra ottica e nella cablatura in quelle stesse aree dove ora Open Fiber si appresta a intervenire.

IL MONITO DEL GOVERNO

“Nel primo bando di gara”, si legge nel comunicato arrivato in serata, “Tim ha partecipato e presentato offerte per tutti i lotti. Il 5 dicembre all’esito della fase di prequalifica del secondo bando, Tim ha dichiarato di voler partecipare alla gara. Il 23 dicembre Tim ha invece comunicato la modifica del suo piano di investimenti e di voler intervenire direttamente in alcune aree bianche, meno del 10% di quelle oggetto del bando di gara, e di non aver più interesse ad intervenire in alcune aeree grigie a parziale fallimento di mercato: è del tutto evidente che il Governo italiano non può ridefinire i contenuti di un progetto prioritario per il paese, che comporta procedure di gara lunghe e complesse”. Di qui, il monito.  “Il Governo italiano non ha ovviamente alcuna intenzione di impedire o ostacolare investimenti di Tim che risultino compatibili con gli impegni legali assunti e la normativa comunitaria di riferimento. Ma  qualora invece mancassero questi presupposti il Governo agirà, com’è doveroso, per tutelare l’interesse pubblico”.


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