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Ecco come e perché la Turchia di Erdogan continua ad amoreggiare con il Qatar

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Ancora una volta il presidente della Repubblica turca, Recep Tayyip Erdogan, decide di sparigliare le carte delle alleanze ed entrare a gamba tesa nei sempre più fragili equilibri che regolano il Medioriente e i Paesi del Golfo.

Il numero uno di Ankara ha detto, senza troppi mezzi termini, che la Turchia cercherà di ricomporre la frattura fra Arabia Saudita e Qatar, sottolineando che non solo la rottura delle relazioni con Doha è fuori discussione, ma che al contrario Ankara continuerà a sviluppare rapporti politici ed economici con l’emirato.

“Non approvo che sul Qatar pesino sospetti di terrorismo – ha detto Erdogan -. Se questo fosse il caso, sarei il primo presidente a oppormi. Questo è una partita, non siamo ancora in grado di capire chi vi sia dietro”. Parole che suonano come un annuncio: qualsiasi gioco vi sia dietro, la Turchia non ha alcuna intenzione di stare a guardare, ma vuole prendervi parte. Per essere più credibile, il Parlamento di Ankara sta approvando anche a tempo di record un provvedimento per inviare 3.000 soldati in Qatar, che staranno in una base militare. Segno che la Mezzaluna vuole mostrare i muscoli a tutto tondo e visto che inizia a farlo anche militarmente è ancora più pericolosa.

Vi è poi da dire che a Erdogan, sane relazioni con il Qatar fanno comodo per almeno due motivi, da oggi forse anche tre. l primo è di ordine meramente economico. Negli anni scorsi l’emirato si era fatto notare, in Turchia come altrove, per la mole crescente dei suoi investimenti. Durante la visita, lo scorso febbraio dell’erede qatariota, il principe Tamim bin Hamad bin Khalifa Al Thani, Erdogan aveva sottolineato che l’ammontare degli investimenti dell’Emirato nella Mezzaluna ammontava a 1,2 miliardi di dollari e che nel 2017 erano previsti progetti nell’industria di difesa per altri 2 miliardi di dollari. Cifre da non disprezzare, tanto più che l’economia turca non ha più lo smalto di qualche anno fa e i mesi seguiti al golpe del luglio 2016 non hanno certo aiutato la situazione.

C’è poi una volontà di smarcarsi da Washington e fare capire all’amministrazione Trump, cosa già fatta con il predecessore Obama, che la politica estera della mezzaluna è ormai autonoma da quella dei suoi alleati storici e che il Paese ambisce a diventare un decision maker a livello globale, con tutte le conseguenze che derivano sulla stabilità della regione, soprattutto se si pensa che fino a questo momento, iniziative analoghe da parte di Erdogan, hanno solo portato a un peggioramento della situazione, in primo luogo in Siria.

Ma oggi la Turchia potrebbe aver trovato una sponda insperata. Cevad Zarif, ministro degli Esteri iraniano, è arrivato ad Ankara proprio mentre il suo Paese si trovava sotto attacco, appositamente per discutere della crisi nel Golfo. L’immagine è quella di una Turchia che continua a giocare su più tavoli. Un allineamento, quest’ultimo, che farà certo piacere a Putin, molto meno a Riad e Washington. La Turchia, inoltre, deve tenersi buona Teheran perché non può rinunciare alla sua fornitura di petrolio e gas naturale. In ultimo la Repubblica islamica, non può entrare in conflitto con Doha, proprio per i giacimenti i cui sopra e che sfrutta proprio in condivisione con l’emirato.

Poi, Recep Tayyip Erdogan, dovrebbe anche provare a spiegare come possa pensare di fare il leader di riferimento del mondo islamico sunnita, obiettivo che ha da tempo, con queste alleanze così ondivaghe e contraddittorie.



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