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Perché l’Italia non riuscirà a chiudere i porti ai migranti dalla Libia

Immigrazione

Fino a qualche giorno fa pochi italiani sapevano che cosa fosse Triton, ora sembra che il destino dell’Africa, dell’Italia e dell’Europa dipenda da quell’operazione di Frontex. Forse ancora meno italiani sanno che cosa sia Eunavfor Med-Operazione Sophia e adesso una commissione del Parlamento britannico composta da conservatori, laburisti e tecnici sostiene che non serva a niente e che anzi ha contribuito ad aumentare i morti in mare. Con un po’ di sciovinismo, The Times titola l’articolo “Royal Navy mission fails (…)”, mentre è una missione europea a guida italiana e la Marina britannica rappresenta uno dei 25 Paesi partecipanti.

GLI STATI NON APRONO I PORTI

Nel frattempo, il direttore di Frontex, Fabrice Leggeri, dopo la decisione di creare un gruppo di lavoro per modificare il piano dell’operazione Triton, ha ammesso che gli Stati non sono disponibili ad aprire i loro porti alle navi cariche di migranti, come l’Italia ha ufficialmente chiesto nella riunione di Varsavia dell’11 luglio. Dal canto suo, al trilaterale Italia-Francia-Germania di Trieste il presidente francese, Emmanuel Macron, ha ripetuto che è un dovere accogliere i richiedenti asilo, ma non i migranti economici, e che “non cederò a questo spirito di confusione imperante” pur ammettendo che sui rifugiati la Francia “non ha sempre fatto la sua parte”. La cancelliera tedesca, Angela Merkel, ancora una volta ha elogiato l’Italia per le cose eccezionali fatte, insistendo sulla necessità che l’Europa agisca in Libia anche con l’Unhcr, e il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, non ha potuto che ribadire la necessità di una politica europea sui migranti e non solo a carico di pochi.

UNA FASE DI STALLO    

Se questa è la situazione, è opportuno ricordare alcuni elementi noti agli addetti ai lavori e meno al grande pubblico (compresi molti politici) emersi nei mesi scorsi grazie alle numerose audizioni parlamentari e alle mille cronache giornalistiche. I punti da cui non si può prescindere sono due: chi rischia di morire in mare va salvato e va condotto nel porto sicuro più vicino. Si può naturalmente discutere di modificare missioni e piani operativi, ma perfino la teorica disponibilità di un’altra nazione europea ad accogliere una nave carica di migranti cozzerebbe con le convenzioni internazionali in vigore perché se l’obbligo è di raggiungere il porto sicuro più vicino non si potrebbe giuridicamente dirigersi verso un altro porto, sicuro sì ma più lontano, con tutto quello che potrebbe accadere a bordo se, per esempio, un migrante in cattive condizioni di salute non dovesse farcela. Se una Ong fosse costretta a non attraccare in Italia e a compiere un tragitto più lontano, potrebbe ipoteticamente contestare una violazione del diritto internazionale. Com’è stato detto nei giorni scorsi, la soluzione sarebbe la modifica delle convenzioni internazionali, obiettivo irraggiungibile.

IL GIUDIZIO DEGLI ESPERTI     

La Libia non è uno Stato in questo momento e dunque non può intervenire a salvare i migranti in caso di chiamata di soccorso che parte dalle sue coste, salvo quello che sta cominciando a fare la sua Guardia costiera. La Tunisia non è considerata uno Stato sicuro a causa del terrorismo e Malta non ha aderito a modifiche di convenzioni internazionali che la obbligherebbero all’accoglienza. Il comandante della Guardia costiera, ammiraglio Vincenzo Melone, nell’audizione del 4 maggio dinanzi alla commissione Difesa del Senato disse: “Chiunque, anche al di fuori della sua area, riceva notizie di un’emergenza è tenuto a prestare soccorso e ha l’obbligo di sbarcare nel più vicino porto sicuro che, nel caso dei migranti, sono quelli in cui è garantita la sicurezza fisica e la possibilità di chiedere protezione internazionale”. Dunque né la Libia né la Tunisia, ma l’Italia. Il 5 luglio il generale Stefano Screpanti, comandante del III Reparto (Operazioni) della Guardia di Finanza, al Comitato Schengen ha spiegato: “Il luogo sicuro di sbarco, tecnicamente definito place of safety, è assegnato secondo l’interpretazione prevalente delle norme internazionali presso il territorio dello Stato titolare del coordinamento dell’attività di soccorso, sempreché questo Paese sia in grado di accogliere le persone. Il principio è che il porto di destinazione segue allo stato attuale la responsabilità del soccorso, che secondo il diritto internazionale si completa con l’arrivo in un porto sicuro”. L’emergenza, quindi, non si conclude nel momento in cui i migranti salgono a bordo della nave dei soccorritori, ma solo all’arrivo in porto, e i soccorsi sono italiani perché le telefonate arrivano alla Guardia costiera italiana.

LE RECENTI DECISIONI E LE PROSPETTIVE

Nel documento finale del vertice di Tallinn è stato chiesto a Libia, Tunisia ed Egitto di definire una propria area Sar (ricerca e soccorso) ed è stato deciso di istituire in Libia un centro di coordinamento di soccorso. Il generale Screpanti in quell’audizione ha spiegato che si vogliono creare due centri: “Un centro marittimo di soccorso e una sala operativa di contrasto” cui stanno lavorando la direzione centrale dell’Immigrazione della Polizia e l’Ue. “Nel Mrcc libico – ha aggiunto – ci dovrebbe essere l’apporto della Guardia costiera italiana che è competente nel soccorso. Nella sala operativa ci dovrebbe essere il supporto principale della Guardia di finanza, anche per svolgere azioni di contrasto e investigative”. Difficile stabilire i tempi di realizzazione, anche in base alla disponibilità dei fondi decisi dall’Ue, ma certamente parecchi mesi.

IL CODICE DI CONDOTTA PER LE ONG

L’agenzia Ansa ha anticipato le 11 regole contenute nella bozza del Codice di condotta per le Ong stilato dall’Italia e che ora viene studiato a Bruxelles. A chi non lo sottoscriverà potrà essere vietato l’attracco nei porti italiani. 1) “Assoluto divieto” per le navi umanitarie di entrare in acque libiche, che possono essere raggiunte “solo se c’è un evidente pericolo per la vita umana in mare”. 2) Non telefonare o mandare segnali luminosi per facilitare la partenza e l’imbarco di mezzi che trasportano migranti, per “non facilitare i contatti con i trafficanti”. 3) Non trasportare migranti su altre navi, italiane o di assetti internazionali, tranne che in situazione di emergenza. 4) Dopo il salvataggio, le navi delle organizzazioni “dovranno completare l’operazione portando i migranti in un porto sicuro”. 5) Obbligo ad accogliere a bordo ufficiali di polizia giudiziaria per indagini collegate al traffico di esseri umani. 6) Non ostruire le operazioni di ricerca e soccorso della Guardia costiera libica per “lasciare il controllo di quelle acque alla responsabilità delle competenti autorità territoriali”. 7) Dichiarare le fonti di finanziamento per le attività di salvataggio in mare. 8) Obbligo di notificare al Centro di coordinamento marittimo del proprio Stato di bandiera l’intervento, “così che questo Stato è informato sulle attività della nave e può assumere la responsabilità anche per finalità di sicurezza marittima”. 9) Possesso di una certificazione che attesti l’idoneità tecnica per le attività di salvataggio. 10) Obbligo a collaborare lealmente con le autorità di sicurezza pubblica della località di sbarco dei migranti, provvedendo – ad esempio – a fornire prima dell’arrivo documenti sull’intervento svolto e sulla situazione sanitaria a bordo. 11) Obbligo a trasmettere tutte le informazioni di interesse investigativo alle autorità di polizia italiane, consegnando nel contempo ogni oggetto che potrebbe costituire prova di un atto illegale.

Alcuni di questi oggetti, per esempio, potrebbero essere quei telefoni satellitari consegnati dai trafficanti agli scafisti per chiedere aiuto e che il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, disse che le autorità italiane non potevano farsi consegnare da certe Ong. Aggiunse che la sala operativa della Guardia costiera aveva ricevuto a distanza di tempo telefonate di soccorso dallo stesso numero di satellitare, una conferma che quell’apparecchio era tornato in mano ai trafficanti.



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