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I professionisti dell’antimafia e Ennio Flaiano

mafia capitale, Flaiano

La sentenza che ha cancellato l’impianto accusatorio della procura di Roma ha lasciato l’amaro in bocca a celebrati professionisti dell’antimafia. “Roma città corrotta? Non credo: troppi impiegati. Sarebbe una corruzione fondata sull’anticipo degli arretrati, su una ferma richiesta di aumenti e sull’anticipo della liquidazione. Ed è mai possibile?” (Ennio Flaiano, Il Mondo, aprile 1957). Con la sua proverbiale e graffiante ironia, il grande pescarese aveva visto giusto già sessant’anni fa. Qualcuno ricorda? Mentre era in corso il maxi-processo a Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, si susseguivano gli arresti di funzionari del Campidoglio che intascavano mazzette e di imprenditori che le elargivano per accaparrarsi anche minuscoli appalti, perfino per riempire qualche buca o rimuovere qualche sampietrino. Leggere questi miserabili episodi di malaffare, pure diffusi e scandalosi, come la conferma dell’esistenza di una piovra mafiosa nella Capitale faceva francamente sorridere.

La verità è più semplice, anche se non per questo meno seria. Infatti, ci troviamo di fronte al collasso economico e politico di una metropoli la cui geografia del potere è profondamente cambiata (ci sono anche meno soldi da distribuire a clientele e corporazioni), ma che -oggi come ieri- rimane senza “grandi peccatori”. Perché mancano, come scriveva sempre Flaiano nel 1960, “i falsi messia, i poeti inediti (tutti stampano qualcosa), i cupi visionari, gli affaristi pazzi, i pittori della domenica, i filosofi ambulanti: non avrebbero un pubblico”. Insieme al denaro, la sola grande attrazione -aggiungeva- resta il sesso. Tuttavia, “questa inclinazione del romano verso la Donna non prende mai l’aspetto del rovinoso vizio e della passione. Il sesso è un conforto, anch’esso vagamente parafamiliare. L’estate scorsa è venuta a Roma Lily Niagara a fare spettacoli di spogliarello. Dopo quattro giorni, nel locale dove lavorava, si entrava con la riduzione dell’Enal” (La solitudine del satiro).

In altre parole: il vizio a Roma è sempre stato razionale e utilitario, un fatto esteriore, un costume, una moda. Sta qui anche il carattere profondamente meschino della sua corruzione. Ci voleva solo la fervida immaginazione di qualche pubblico ministero o l’incallito voyeurismo di qualche infoiato giornalista per trovarlo ardito, violento e spietato come quello delle multinazionali del crimine. Del resto, più o meno ramificato che sia, ogni sistema corruttivo che la vede coinvolta conferma che la politica è come il colesterolo: c’è la molecola buona e c’è quella cattiva. Per abbassare nel corpo umano la molecola cattiva solitamente viene prescritto un medicinale, la statina. Per abbassarla nel corpo sociale il medicinale non è però il moralismo ma il diritto, le buone leggi e la loro rigorosa applicazione.

Il codice penale, i magistrati e le forze di polizia ci sono perché ci sono -e sempre ci saranno- i ladri. Servono -o dovrebbero servire- a punirli e, soprattutto, a scoraggiare l’auri sacra fames, quell’impulso irresistibile ad arricchirsi di cui parlava Max Weber. Se invece si vogliono fare puntate facili alla roulette dell’antipolitica, si dia pure libero sfogo all’indignazione dei cittadini contro corrotti e corruttori dell’Urbe. Ma attenzione a quell’oppio dei popoli che non è la religione, come pensava Lenin, ma la demagogia. La demagogia in Italia è ormai una merce che chiunque può acquistare a prezzi stracciati. In queste ore imperversano nei mass media nugoli di novelli Savonarola affamati d’etica a buon mercato che non sanno, o che fanno finta di non sapere, che il principio di legalità è moralmente neutrale. Perché, ammoniva Kant -un filosofo che di etica se ne intendeva- lo Stato “non può esigere l’integrità morale dei cittadini, ma unicamente la loro lealtà”.


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