La vicenda tragica di Charlie Gard sta scuotendo la coscienza morale di tutti. La lotta dei genitori per assicurare al figlio tutte le cure possibili, anche quelle che oggi lo sono soltanto a livello sperimentale, è veramente un atto degno di lode per l’amore e la forza che essi continuano a mettere in questa battaglia, regalando a tutti noi uno straordinario esempio di coraggio.
A far riflettere, però, non è soltanto la durezza dell’esistenza, quando decide di provare in maniera così dura le persone, o il mistero stesso del dolore e della sofferenza, che tocca il cuore degli esseri umani, ma le difficoltà che la burocrazia giudiziaria, anche in questo frangente, sta mettendo in campo contro la solidarietà che si è creata attorno alla piccola creatura e alla sua famiglia.
Gli eventi sono noti, ed è quasi inutile riassumerli. Per poter accedere all’agognata terapia è necessario per i genitori attendere l’autorizzazione del giudice, la cui udienza è rimandata ora al 13 luglio. Nel frattempo il bimbo di dieci mesi, affetto da una sindrome da deplezione del dna mitocondriale, che annovera solo sedici casi al mondo, deve stare in attesa, vedendo scorrere inesorabilmente le ore e i giorni.
Generalizzando si devono riconoscere sempre due punti etici fondamentali che entrano in causa in casi del genere, differenziandoli da altri precedenti e simili. Qui non vi sono dei genitori che vogliono farla finita, non vi è la volontà di accelerare la morte, ma un desiderio naturale di voler lottare e combattere per la vita, malgrado tutto. Questo identifica fin dall’inizio la storia di Charlie come paradigma morale.
Il secondo punto riguarda il drammatico incontro che qui si verifica tra i due momenti massimi di sollecitazione etica della vita stessa, il suo inizio e la sua fine.
Come si sa, in tali situazioni esistono due estremi che non possono essere valicati rettamente: l’eutanasia, vale a dire la morte voluta e deliberata; l’accanimento terapeutico, vale a dire la vita mantenuta in essere artificialmente. Esclusa la prima per l’indefessa volontà virtuosa dei genitori, la seconda è a sua volta scartata a causa del pronunciamento non di una sinistra mitologia superstiziosa di sciamani, bensì della comunità scientifica che a livello internazionale ha confessato una possibilità, labile e tenue, ma concreta di terapia per Charlie.
Ecco perché di fatto impedire, rallentare e rendere impossibili le cure, fossero pure alimentate solo da speranza e da incrollabile amore genitoriale, costituisce un atteggiamento burocratico e legalistico insopportabile.
La vita umana oltrepassa la nostra comprensione. Non vi possono essere ragioni che derivano da fatti temporanei e contingenti, come la gioia e la sofferenza, che ne giustifichino il valore, ma unicamente la vita stessa che genera e conserva l’esistenza stessa.
Non è possibile chiudere l’amore e la speranza in un protocollo empirico o in una procedura formale. Qui in fin dei conti vi sono due opposte concezioni della vita che si scontrano. Quella di chi ha fiducia nella vita umana senza poterla controllare e indirizzare, ma solo sostenere e volere nel suo mistero. E quella di chi invece vuole chiudere e trincerare la sua essenza imponderabile in qualche condizione stabilita, avendo paura di poter accettare come ulteriorità di senso quanto non si lascia mai contenere e ghermire completamente.
Il fatto poi che la giurisprudenza positiva un po’ ovunque finisca per facilitare molto più chi vuol morire rispetto a chi vuol vivere dice qualcosa di profondamente inquietante sul potere, e sull’errato punto di vista filosofico oggi dominante a proposito dell’uomo e del diritto. Già, perché non vi è nulla di più razionale, come diceva Pascal, che ammettere che vi sono infinite cose cha la oltrepassano. E la vita umana rende preziosa sempre la vita, a meno di non volerla ridurre ad un concetto o ad un livello presunto di vivibilità legalmente garantita, pensando magari di sancire con una sentenza il valore o disvalore di una persona e della sua ineluttabile trascendenza esistenziale.