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Ecco i piani del governo sulle pensioni future

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È in corso tra sindacati e governo il confronto sulla Fase 2 prevista dall’accordo sulle pensioni, mentre i provvedimenti della Legge di bilancio stanno entrando poco per volta in vigore. A quel tavolo sono forti la tentazione, le spinte e gli stimoli, da parte delle organizzazioni sindacali, di guardare all’indietro anziché in avanti: ovvero ai lavoratori in prossimità di quiescenza (mediante gli interventi proposti per l’età pensionabile o gli aggiustamenti per l’Ape sociale, soprattutto) piuttosto che ai pensionati dei prossimi decenni. Resta comunque curioso che in Italia ci si preoccupi di quando i giovani diventeranno anziani prossimi alla pensione, prima che della loro condizione attuale di occupabilità e di reddito. Ma visto che di previdenza si parla, abbozziamo pure e stiamo ad osservare ciò che succede.

Il governo una proposta ce l’ha ed è stata presentata anche nel  recente seminario (irrituale?) nella sede del Pd, con una bella relazione di Stefano Patriarca. Per realizzare il nuovo disegno vi sono, secondo gli esperti dell’esecutivo, alcune  precondizioni così riassumibili: contenimento della spesa nel breve e stabilizzazione finanziaria nel medio lungo periodo; miglioramento delle condizioni del mercato del lavoro; politiche di invecchiamento attivo.  Si tratta, come è facilmente comprensibile, di presupposti preliminari. Se il sistema non riesce a mantenere un equilibrio (o meglio uno squilibrio sostenibile) nel presente, non c’è speranza di un futuro; le condizioni del mercato del lavoro sono il tapis roulant su cui camminano le prospettive del sistema, sia per quanto riguarda la posizione dei singoli sia quella della collettività dei lavoratori; le buone pratiche di invecchiamento attivo si accompagnano all’esigenza di allungare la vita lavorativa anche dal lato dell’offerta di lavoro. Ciò premesso, la proposta passa ad indicare gli strumenti: un sistema revisionato di contribuzione figurativa e un fondo di solidarietà per il sostegno delle basse contribuzioni (come solidarietà tra generazioni); il superamento degli ostacoli alla flessibilità contributiva; la gestione dell’innalzamento dell’età di pensionamento, come garanzia dell’adeguatezza e della stabilità; le diversificazioni necessarie per il lavoro di cura, le condizioni di salute, la gravosità del lavoro, l’assenza di reddito; un nuovo rapporto tra primo pilastro e previdenza complementare non solo e non tanto per integrare la pensione pubblica al momento dell’età di vecchiaia ma come strumento di gestione di risparmio collettivo per la gestione di redditi ponte (come l’Ape e il Rita).

E alla fine della partita: un meccanismo di pensione di garanzia definito trattamento minimo di garanzia. Vediamo di che cosa si sta discutendo. Una delle possibili ipotesi è quella di introdurre anche nel sistema contributivo l’integrazione a un minimo previdenziale come nel retributivo (mentre non è previsto nel modello contributivo) con la seguente struttura: un trattamento pari all’attuale minimo comprensivo della maggiorazione sociale (circa 650 euro mensili) percepibile all’età di vecchiaia con 20 anni di contributi e crescente per ogni anno di contribuzione successivo al 20° (ad esempio 30 euro al mese per anno con un massimo di 1.000 euro).

Questa ipotesi, secondo gli sherpa governativi, determinerebbe un tasso di sostituzione per una carriera piena (40 anni di contributi) pari al 65% della retribuzione media netta. Resta un problema: come raggiungere lunghi periodi di contribuzione per le nuove generazioni. Nella passata legislatura il sottoscritto alla Camera e Tiziano Treu al Senato avevamo presentato un progetto di legge che si poneva i medesimi obiettivi di garanzia per i giovani, ma in modo più certo. La proposta si basava sul riconoscimento di un trattamento pensionistico obbligatorio articolato secondo due componenti: una pensione di base finanziata dalla fiscalità generale, di importo pari all’attuale assegno sociale e rivalutabile secondo le medesime disposizioni, e una pensione calcolata secondo il vigente sistema contributivo. Ciò allo scopo di assicurare, in particolare ai soggetti con minore capacità reddituale e contributiva, trattamenti pensionistici obbligatori complessivi e lordi non inferiori al 60 per cento della retribuzione di riferimento.  Infine, l’accesso alla pensione di base era condizionato al possesso dei seguenti requisiti, contributivi e anagrafici: almeno dieci anni di soggiorno legale, anche non continuativo, nel territorio nazionale; almeno dieci anni complessivi di contribuzione effettiva, anche non continuativa, a una o più gestioni di previdenza obbligatoria; maturazione dei requisiti anagrafici già previsti dalla legge per l’accesso alla pensione contributiva.

 



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