Non è purtroppo una novità, ma la sensazione è che in Italia il rischio del terrorismo islamista non sia percepito da tutti come una minaccia davvero imminente, consistente, attuale.
Eppure – a partire da Isis – non passa mese senza che vi siano minacce esplicite e circostanziate verso di noi e verso Roma, con tutta la carica simbolica (Occidente, cristianità, ecc.) che la capitale d’Italia porta inevitabilmente con sé.
Ciononostante, la strategia di negazione, di rimozione, di attenuazione, prosegue senza pause. Il rosario delle frasi fatte è ben noto. Se c’è un attentato in qualche altro Paese europeo, il “collettivo” composto da presunti esperti, commentatori, politici mainstream, dice puntualmente che “la religione non c’entra”, che si tratta di un “depresso”, che “non bisogna generalizzare”, e così via.
Questa denial strategy ha una specie di pendant parlamentare, rappresentato da un atteggiamento schizofrenico. Nei giorni pari, si approvano leggine (non dannose, ma nemmeno granché utili) di prevenzione della radicalizzazione jihadista. Ma poi, nei giorni dispari, si spalancano le porte con lo ius soli e la legge sui minori non accompagnati.
Inutile girarci intorno. Se finora siamo stati risparmiati da atti di sangue, lo si deve al gran lavoro delle forze dell’ordine e della nostra intelligence, al fatto che (purtroppo) siamo considerati terra di transito, ma soprattutto alla circostanza che – per ora – i numeri degli islamici sono ancora complessivamente contenuti, e non ci sono pezzi di città completamente appaltati al jihadismo. Serve a poco approvare leggi e cariche di buone intenzioni, se poi nel frattempo si creano le condizioni per un fortissimo peggioramento dello status quo.