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Cosa faranno Usa e Italia in Libia. I dettagli dell’incontro Pinotti-Mattis

Il ministro della Difesa italiana Roberta Pinotti e il capo del Pentagono James Mattis martedì hanno avuto un faccia a faccia a Washington, proprio mentre la CNN pubblicava un articolo informato in cui si parlava di un possibile aumento del coinvolgimento americano nella crisi libica. L’articolo della CNN non è stato smentito, e questo fa pensare che realmente il dossier sia in discussione all’interno dell’amministrazione, perché il network televisivo americano è l’obiettivo preferito dei trumpiani più convinti e sarebbe stato un target perfetto per qualche genere di vociata contro al grido di “fake news!”.

IL RUOLO DEL PENTAGONO

L’idea di aumentare la presenza statunitense nel Paese nordafricano potrebbe benissimo arrivare dai settori della difesa (indizi? Il pezzo della CNN lo ha firmato Barbara Starr, storica e ben informata corrispondente dal Pentagono) e nel readout dell’incontro con Pinotti, la portavoce di Mattis Dana White, sottolinea per due volte che la questione Libia ha avuto un’attenzione particolare e dice: “I due leader hanno discusso dell’importanza della stretta collaborazione tra le loro nazioni per portare stabilità in Libia, e stanno pianificando un ulteriore impegno in tale sforzo”. Mattis stesso ha riconosciuto che l’Italia, oltre a dare il proprio contributo nei teatri operativi come l’Afghanistan e l’Iraq, ha il suo da fare con il “fronte sud”, perché è “un Paese di confine” – il fronte sud è ovviamente il Mediterraneo, con tutto il suo interesse strategico, solcato dalle rotte migratorie africane, “è stata accolta la nostra richiesta di trasformare il comando Nato di Napoli in un hub per il Sud, ma pensiamo si possano aggiungere altre risorse per tutta una serie di attività nel Mediterraneo. Mattis si è mostrato aperto all’idea”, ha commentato Pinotti con i giornalisti.

TRA USA E ITALIA

“Gli americani sono disposti a contribuire con 50 commandos – ha scritto oggi Repubblica – Manca però un Paese che si assuma il compito di leader, fornendo la maggior parte dei militari e coordinando gli interventi a livello politico e diplomatico. Quello appunto che gli Usa si aspettano dall’Italia”.

LA LINEA TRUMP

Che la nuova strategia possa uscire dal Pentagono o da ambienti militari è possibile anche perché sui dossier aperti come quello libico il presidente Donald Trump ha deciso di affidarsi molto ai generali – che fanno parte del gabinetto amministrativo con ruoli diretti e trovano sponda all’interno della Casa Bianca nella linea con cui il Consigliere per la Sicurezza nazionale HR McMaster sta cercando di lavorare. Dall’altro lato di questo genere di letture c’è la politica dettata dai falchi del disimpegno nazionalistico come Steve Bannon, e su cui lo stesso presidente si trova istintivamente più allineato: la Libia è una questione di non diretto interesse americano, la devono gestire gli alleati del Mediterraneo, soprattutto l’Italia; Washington darà il suo contributo per combattere le fazioni terroristiche, come ha fatto a Sirte con l’IS, ma niente di più.

LA LINEA AMERICANA

In linea generale la visione dell’amministrazione Trump non è troppo differente da quella che con cui Barack Obama ha segnato il suo marchio sul dossier: la principale differenza sta in quello che sembra un approccio più diretto nei confronti di Kahlifa Haftar, il generale-politico che ormai controlla tutta la Cirenaica e che gode del sostegno di Egitto, Emirati Arabi e Russia. Il tentativo – ai tempi molto spinto da Washington – di eliminarlo dalla scena forzando l’introduzione del premier onusiano Fayez Serraj durante la primavera dello scorso anno non è riuscito, e dunque con lui ci si dovrà confrontare in un modo quanto più possibile inclusivo. Il piano americano di aumentare del coinvolgimento prevede la riapertura del consolato di Bengasi, per esempio, città simbolo del potere haftariano, e dunque un maggiore avvicinamento anche politico con l’Est libico è inevitabile: su questo l’Italia è stato uno dei primi paesi ad aver iniziato il lavoro, con l’ambasciatore Giuseppe Perrone che ha mantenuto contatti sempre aperti con entrambi i poli. Passaggi necessari, quelli politico-diplomatici, per preparare il terreno a un’eventuale missione militare che prevederebbe l’invio di istruttori per costruire l’embrione dell’esercito libico che dovrà difendere il processo di riconciliazione. Su questo Serraj ha già chiesto una mano alla Nato, ma si tratta di un progetto delicato: qualche mese fa una fonte libica spiegò a Formiche.net che qualsiasi presenza militare sul proprio territorio verrebbe vista come una forza d’occupazione, “i libici sono nazionalisti, e figurarsi che ricordi evocano i soldati italiani”.

(Foto: Defense.gov)


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