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Triton e migranti, ecco l’ultimatum dell’Italia

I prossimi giorni porteranno cambiamenti importanti sul fronte dell’immigrazione: martedì 11 luglio è in programma la riunione a Varsavia con l’Agenzia Frontex per discutere su quanto è previsto dalla missione Triton mentre è stata rinviata la riunione prevista per giovedì 13 tra la Guardia costiera e le Ong che avrebbero dovuto discutere del codice di condotta al quale dovranno attenersi. Probabilmente il testo, che va concordato con Bruxelles, non è ancora pronto. La missione Triton è tecnicamente un’operazione di polizia per il controllo delle frontiere che fu varata il 1° novembre 2014 da Frontex e posta sotto il comando del ministero dell’Interno italiano in collaborazione con la Guardia di Finanza e la Guardia costiera, ma naturalmente deve occuparsi del salvataggio dei migranti che chiedono aiuto, come qualunque nave è obbligata a fare. Triton seguì Mare nostrum, operazione solo italiana varata dal governo di Enrico Letta che spesso ripete di considerare un errore la sua interruzione. Dovrebbe però ricordare che Mare nostrum costava quasi 10 milioni di euro al mese sul bilancio annuale del ministero della Difesa, cifra insostenibile nel lungo periodo.

UNA TRATTATIVA MOLTO DIFFICILE

L’Italia si presenterà a Varsavia nel tentativo (forse l’ultimo) di convincere gli altri Paesi ad accogliere una parte delle persone salvate in mare chiedendo di modificare l’accordo per suddividere il peso dell’emergenza. Il ministro dell’Interno, Marco Minniti, lo sta ripetendo da giorni: “Un conto è salvare, un altro è accogliere”. Visto che Francia, Spagna, Germania, Olanda e Belgio hanno detto chiaramente che non intendono accogliere nei loro porti le navi cariche di migranti, è probabile che a Varsavia andrà in scena uno scontro dalle conseguenze imprevedibili. Tra le ipotesi che si fanno c’è perfino quella di un’uscita unilaterale dell’Italia da Triton: eppure le convenzioni internazionali obbligano tutti gli Stati non solo a salvare chi è in pericolo in mare, ma anche a trasportarlo nel “place of safety”, l’ormai famoso porto vicino più sicuro che oggi in quell’enorme area del Mediterraneo è sempre un porto italiano.

LE CONCLUSIONI DEL G20

Al vertice di Amburgo il tema dell’immigrazione è stato toccato marginalmente, se visto con occhi italiani, e in termini globali, come ha sottolineato il presidente del Consiglio. Paolo Gentiloni considera importante che nel documento finale si riconosca “la necessità di occuparsi sia dei rifugiati che dei migranti economici con strumenti giuridici diversi” e che si sottolinei “la necessità di uno sforzo globale, concertato e multilaterale”. C’è poi la conferma del “percorso delle Nazioni Unite che ha lanciato il global compact migration, il meccanismo globale in base al quale ciascun paese, anche lontano dalle aeree di crisi” può trovare il modo per farsi carico della situazione, com’è il caso del Canada con i profughi siriani. Nella conferenza stampa finale Gentiloni ha usato come sempre toni diplomatici, negando “un’indifferenza francese” che ha tradotto in “punti di vista diversi”. La sostanza non cambia, il presidente ha rivendicato “a testa alta” lo sforzo italiano e “i vicini sanno che non può essere illimitato”. I passi avanti fatti sono “del tutto insufficienti”. Nel documento si dà anche per assodato il rimpatrio dei migranti che non hanno diritto a restare, purché avvenga in sicurezza, e che gli Stati hanno diritto a “gestire e controllare i loro confini”.

RENZI, LE POLEMICHE E LE ELEZIONI

Gentiloni ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma non è sfuggito a un commento sulla frase di Matteo Renzi “Aiutiamoli a casa loro”, tratta dal libro in uscita “Avanti”. “Se uno la vuole leggere in modo onesto è assolutamente ragionevole” ha detto il presidente del Consiglio, mentre sarebbe “un’idea bizzarra” interpretarla con l’intenzione di “mitragliarli, di cacciarli” se vengono a casa nostra. In questo caso Renzi ha detto una cosa ovvia: non si può avere ragione se si parla di “migration compact” e torto se si dice “aiutiamoli a casa loro”. In politica, però, ogni parola può scatenare un pandemonio, l’immigrazione è un tema che orienterà i flussi alle elezioni e quindi tutti i partiti cercano di pescare nel bacino dell’altro. Dal G20 è arrivata la conferma che bisogna intervenire in Africa, quindi “a casa loro”, e Gentiloni ha ammesso che è difficile vedere risultati nel medio periodo portando come esempio il Messico: il presidente Enrique Peña Nieto gli ha spiegato che oggi il numero di messicani che va negli Stati Uniti è lo stesso di quelli che tornano a casa, “ma ci sono voluti vent’anni” perché quella nazione si sviluppasse per consentirlo.

IL RISCHIO “IUS SOLI”

Com’era stata avventata la decisione del Pd di portare la legge sullo “ius soli” in Aula al Senato alla vigilia dei ballottaggi delle recenti elezioni amministrative, così si sta confermando un rischio cercare a tutti i costi l’approvazione nel bel mezzo dell’emergenza immigrazione. Ancora il 7 luglio Renzi ha cercato di accattivarsi elettorati diversi difendendo il provvedimento che è “una norma di civiltà” e nello stesso tempo ipotizzando “un numero chiuso di arrivi” perché “non possiamo accogliere tutti”. A parte le obiezioni su come si calcolerebbe un numero chiuso, insistere sullo “ius soli” metterebbe a serio rischio il governo Gentiloni essendo stata già ipotizzata la fiducia. In quel caso, l’opposizione di centrodestra non potrebbe “aiutare” Renzi in vista di ipotetiche grandi coalizioni prossime venture perché è un tema troppo divisivo e dall’altro lato la sinistra di Mdp, formalmente nella maggioranza, potrebbe far pagare un prezzo salato. La conclusione probabile è che lo “ius soli” slitterà a dopo l’estate quando, avviata la campagna elettorale per le politiche, difficilmente vedrà di nuovo la luce.

QUEI SEGNALI DALL’ESTREMA SINISTRA E DALLE ONG

Siccome tutto si tiene, alcune dichiarazioni hanno un senso ben preciso. Arturo Scotto, deputato di Mdp e già di Sinistra italiana, non molla l’osso rappresentato da quella frase di Renzi invocando un intervento di Gentiloni in Parlamento per spiegare la linea sull’immigrazione dopo “un fallimento significativo” dei vertici di Tallinn e di Amburgo. Sulla questione delle Ong, invece, nei giorni scorsi Loredana De Petris, capogruppo di Sinistra italiana al Senato, aveva accusato Minniti di cinismo perché “sarebbe alto il prezzo” della “chiusura delle acque territoriali libiche” ammettendo che le Ong vi entrano regolarmente quando invece non si può, a meno di naufragio in atto. Ma il segnale più preoccupante arriva da Medici senza frontiere: in una dichiarazione dell’8 luglio l’organizzazione ha affermato che “se il Codice di condotta fosse attuato, ci sarebbero meno navi disponibili nell’area di ricerca e soccorso e questo potrebbe condannare le persone in pericolo nel Mediterraneo a una morte certa”. Quindi “rifiuteremo qualsiasi misura che potrebbe aggiungere ulteriori restrizioni alla già sovraccarica capacità di salvare vite nel Mediterraneo o che mirano a nascondere la sofferenza delle persone disperate in Libia”, invitando l’Europa a intervenire per offrire alternative alle traversate in mare. La minaccia di rifiutare le nuove regole, perché di questo si tratta, apre un ulteriore scenario imprevedibile.



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