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Perché gli scioperi nei trasporti violentano il diritto di sciopero

Il diritto di sciopero è un caposaldo della democrazia. Ed è una materia molto delicata da regolamentare. Ma le frequenti e ricorrenti astensioni dal lavoro (sia nazionali che locali) proclamate da organizzazioni del sedicente sindacalismo di base con motivazioni incomprensibili finiscono per somigliare più ad una provocazione, a un vero e proprio atto di violenza privata verso dei cittadini inermi, piuttosto che all’esercizio di un diritto.

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Tra le due guerre mondiali del secolo scorso, la Repubblica di Weimar inserì nella Costituzione un programma avanzato di diritti sociali, sindacali e del lavoro: il diritto al lavoro o al mantenimento, la garanzia di un articolato sistema assicurativo, la tutela della maternità e della vecchiaia, la protezione dei lavoratori, la definizione di obblighi sociali connessi alla proprietà, il vincolo di carattere generale della corrispondenza “dell’ordinamento economico a principi di giustizia, con l’obiettivo di garantire a tutti un’esistenza dignitosa”. Altrettanto importante fu lo sviluppo, anche teorico, della contrattazione collettiva, che rompeva con l’originario principio liberale del contratto individuale di lavoro. L’autotutela collettiva non fu soltanto tollerata: alle forze sociali organizzate venne riconosciuto il ruolo di creare ed amministrare il diritto. Sono brani, questi, tratti da un libro fondamentale per lo studio di queste materie di cui è autore il tedesco Gerard A. Ritter: “Storia dello stato sociale” (Laterza 2° edizione nel 2007). La Costituzione di Weimar anticipò ed influenzò molte altre leggi fondamentali degli Stati democratici, compresa la nostra. Eppure la Repubblica scivolò tragicamente nel girone infernale del Terzo Reich.

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Scrive in proposito Ritter: “L’esempio di Weimar insegna che l’influenza dello Stato sociale sulla stabilità dei sistemi politici è ambivalente. Mentre da un lato esso cerca di attenuare la miseria sociale e quindi di stabilizzare lo Stato, dall’altro gli può essere attribuita la responsabilità diretta dei conflitti di competenza favorendo in tal modo il crollo di un sistema politico”.

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Importanza delle parole nel dare conto di una situazione o di un modo di essere di una persona. Una in più od una in meno possono fare un’importante differenza. Matteo Renzi era “un uomo solo al comando”; adesso è soltanto “un uomo solo”. È bastato togliere un articolo e un sostantivo e tutto è cambiato.

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In questa società nichilista, in cui i genitori dimenticano i figli in auto quasi assicurandosi che ci batta il sole per ore, sarebbe stato politicamente corretto – e quindi meritevole della massima comprensione – che fossero il padre e la madre a chiedere di staccare la spina.

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Mi è arrivato un video molto significativo. Una coppia discute a tavola di andare in vacanza. Il marito solleva il problema del cane (che intanto ascolta la conversazione di sottecchi). La moglie risponde che non ci sono problemi; basta abbandonarlo. Così, si vedono due fari nella notte su di una strada; l’auto si ferma poi riparte in gran fretta. “Ecco – pensate voi – hanno mollato il cane, quei maledetti!”. Invece no. Nella scena successiva si vedono il marito e il cane, ambedue seduti a tavola. L’uomo si è giustamente liberato della moglie e si è tenuto il cane.

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Chi se lo sarebbe mai aspettato che saremmo finiti per dipendere dalle scelte di Dario Franceschini?



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