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Caro presidente Berlusconi, ci ripensi sulla doppia moneta. La prego

Caro Presidente Silvio Berlusconi, sulla doppia moneta ci ripensi. La sua è stata una proposta generosa per impedire che la Lega Nord – inizialmente orientata verso il “no euro” – fosse ulteriormente marginalizzata ed additata al pubblico disprezzo. Mossa lungimirante, la sua: ha consentito che all’interno di quella formazione politica si sviluppassero i necessari anticorpi. Che altri dirigenti, come Giancarlo Giorgetti, facessero valere la loro grande esperienza istituzionale. Ed ora lo stesso Matteo Salvini non parla più di abbandonare l’euro. Chiede una rinegoziazione dei Trattati: cosa buona e giusta. Basti considerare che l’articolo 16 del Trattato relativo al Fiscal compact prevede esplicitamente che dopo un periodo di sperimentazione di 5 anni (scadenza 2018) sia indispensabile tirare le somme. Prima di inserire quelle norme nell’Ordinamento europeo. Esistono, pertanto, tutte le condizioni per poter portare avanti una riflessione più distesa.

Introdurre una moneta diversa dall’euro richiederebbe, innanzitutto, una negoziazione infinita a livello europeo. Presupporrebbe, infatti, l’abbattimento di alcuni principi basici. Si pensi all’indipendenza della Banca d’Italia, che è protetta dai Trattati. O alle clausole Cac (“clausole di azione collettiva”) che garantiscono quasi tutto il debito italiano. Secondo le quali, il rimborso dei titoli emessi dovrebbe, comunque, avvenire al loro valore reale. Quindi l’eventuale svalutazione della nuova moneta dovrebbe essere compensata da un maggiore esborso, pari all’entità della perdita di valore nel frattempo intervenuto.  Sarebbe, inoltre, una battaglia in solitario, senza sponda alcuna da parte degli altri partner europei. Paesi come la Francia o la Spagna, benché da tempo immemorabile in “procedura d’infrazione” hanno comunque visto crescere il loro reddito ad un ritmo maggiore di quello italiano. E godere, al tempo stesso, di spread inferiori. Perché dovrebbero appoggiare questa posizione ed i rischi connessi, in tema di pericolosi precedenti?

Ma è sul piano dell’economia interna che gli svantaggi rischiano di essere ben maggiori dei possibili vantaggi. La moneta non è solo mezzo di pagamento, è soprattutto  strumento di tesaurizzazione. Altre regole possono convivere per quanto riguarda le relazioni commerciali – si pensi alle bitcoin – ma questi sistemi di pagamento non convenzionali hanno valore solo fin quando sono accettati da una setta più o meno ampia di adepti. Non hanno il crisma statuale. Imporre, per legge, un diverso conio creerebbe immediatamente una doppia circolazione monetaria. Ma poiché l’equivalente universale non può essere che uno, sarebbe quest’ultimo a determinare il livello dei prezzi. Ne abbiamo avuto tragica dimostrazione con la nascita dell’euro. La lira venne immediatamente spiazzata. Il prezzo dei beni e dei servizi si adeguò agli standard europei, ma non altrettanto avvenne con il potere d’acquisto delle famiglie e delle imprese, residenti nel nostro Paese.

Una moneta utilizzabile solo per gli scambi interni avrebbe come immediata conseguenza il suo deprezzamento rispetto all’euro. Non potendo tradursi in risparmi (tesaurizzazione) verrebbe continuamente scambiata. La sua velocità di circolazione sarebbe ben più elevata di quella dell’euro. E di conseguenza, per questo semplice effetto meccanico ed al di là della quantità stampata, perderebbe valore nei confronti dei beni con cui è destinata a scambiarsi. Se poi si volessero emettere titoli nel nuovo conio il loro valore non potrebbe tener conto del maggior rischio, in termini di svalutazione al momento del rimborso, con un forte aggravio dei tassi di rendimento.

Possono sembrare fumisterie di un vecchio professore, ma l’esperienza storica italiana ne conferma, in pieno, la dinamica. Nell’immediato dopoguerra le truppe di occupazione stamparono le am-lire. Vi fu quindi una doppia circolazione monetaria. Che contribuì in modo determinante alla crescita di un’inflazione devastante. Accelerata, ovviamente, dalla contestuale mancanza di beni e di prodotti. Furono stampati 167 miliardi di lire dal 19 luglio 1943 al 17 aprile del 1945. Ed in meno di due anni il debito pubblico italiano aumentò dell’85 per cento. Terminata la guerra ed iniziata l’opera di ricostruzione, uno dei grandi temi in discussione fu proprio la tenuta della vecchia moneta: ormai completamente inflazionata. I comunisti di allora ne proposero l’abbandono. Il cosiddetto “cambio della moneta” doveva servire per una gigantesca opera di redistribuzione del reddito, al fine di colpire coloro che consideravano “profittatori di guerra”. Prevalse, invece, la linea Pella-Einaudi.

Essa si concretizzò in una drammatica stretta creditizia e di bilancio tesa ad abbattere l’inflazione e garantire un più ordinato svolgimento degli scambi. Non solo interni, ma internazionali. Le cose andavano di pari passo. Fu anche la premessa per la ricostituzione delle riserve auree della Banca d’Italia: quale garanzia per la ripresa degli scambi internazionali, contro la quale la parte meno lungimirante del padronato italiano, si opponeva. Merito di Ugo La Malfa e di Carlo Sforza. Ma il prezzo pagato dall’Italia non fu da poco. Basti pensare che molte delle risorse del Piano Marshall furono congelate, piuttosto che essere utilizzate per il rilancio economico, al fine di consolidare la posizione di Banca d’Italia, come garante della solvibilità degli scambi. Seguirono polemiche roventi, con i comunisti all’attacco nel denunciare la “restaurazione capitalistica” anche nel successivo periodo del boom economico. Ricordi del passato: indubbiamente. Ma che è bene non dimenticare.

Con la solita stima.

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