La grande industria petrolifera non demorde e cerca la rivincita per uscire dalla tempesta del cheap oil che ormai attanaglia il mercato energetico da quasi quattro anni. Nell’ultimo semestre, l’attività esplorativa dei titani del petrolio non è mai stata così attiva, sono stati scoperti più giacimenti in questo periodo che in tutto il 2016. Secondo un report di Wood Mackenzie, società di consulenza specializzata in energia, i progetti di estrazione di idrocarburi avviati sono stati 25, contro i 12 del 2016, mentre il costo medio di sviluppo è crollato del 40 per cento dal 2014, segno che le grandi compagnie petrolifere hanno imparato a gestire con maggiore agilità la produzione.
Gli analisti sono concordi nell’attribuire questo scatto dell’industria petrolifera alla battaglia che ormai da qualche tempo il mondo del big oil ha ingaggiato contro la produzione americana di shale gas e la galoppata delle rinnovabili che continua ad alimentare una parte dei flussi finanziari verso progetti mastodontici che creano sempre maggiore consenso. Difatti, secondo gli ultimi dati resi disponibili dall’Irena – l’International renewable energy agency – i posti di lavoro creati nell’ambito delle energie rinnovabili sono cresciuti ulteriormente nel mondo nel corso dell’ultimo anno, arrivando a riguardare a fine 2016 circa 9,8 milioni di persone. Ma si tratta del preludio di una bolla o siamo davanti ad a qualcosa d’altro?
Alcuni esperti come Andy Mukherjee hanno già messo in guardia sul rischio di una grossa crisi speculativa legata alle fonti energetiche verdi in un paese cruciale per il mercato energetico come l’India. Sta di fatto che le grandi compagnie petrolifere internazionali sono sempre più orientate allo sviluppo del gas naturale come leva per scardinare questo paradigma. Emblematica, in questo senso, la frase pronunciata di recente dal ceo della francese Total, Patrik Pouyanne: “Tra 20 anni non saremo più conosciute come compagnie di petrolio e gas, ma di gas e petrolio”. La stessa Total è stata di recente protagonista di uno degli investimenti più importanti nel settore dell’estrazione del gas, siglando un accordo con l’Iran per lo sviluppo del giacimento gasiero del South Pars.
I nodi non sono facili da sciogliere, fare predizioni sul futuro dei mercati dell’energia è diventato sempre più scivoloso. C’è chi ritiene, ad esempio, un futuro non roseo per il gas. Una proiezione pubblicata il mese scorso da Bloomberg New Energy Finance prevede che la quota del gas nel mercato della generazione globale di energia elettrica calerà dal 23 per cento dello scorso anno al 16 per cento nel 2040, e che la capacità di generazione inizierà a declinare già nel 2031. Anche British Petroleum ha recentemente messo in guardia dai rischi nella domanda di gas, individuando in quest’ultima uno dei principali fattori di insicurezza; secondo al compagnia petrolifera, la domanda di gas naturale potrebbe appiattirsi nel 2035, per effetto dell’avanzata dei combustibili no fossili.
Se questi pronostici fossero accurati anche solo in parte, le implicazioni potrebbero essere enormi per i colossi petroliferi, già alle prese con la prospettiva della diffusione dell’auto elettrica. Amin Nasser, il nuovo capo azienda della compagnia petrolifera Saudi Aramco – che si appresta a sbarcare in borsa con una delle Opa più grandi mai realizzate nelle borse finanziarie – cerca di frenare il pessimismo. “Nei prossimi 25 anni avremo due miliardi di consumatori di energia in più rispetto ad oggi, ma gas e petrolio continueranno ad essere affidabili ed è falso affermare che le rinnovabili saranno una degna e totale alternativa”, ha affermato Nasser, che ha poi aggiunto, “le energie rinnovabili non competono direttamente con il petrolio, per accogliere la transizione energetica dobbiamo trasformare il nostro modello di business per capire che gas e petrolio non sono soltanto una fonte primaria ma possono rappresentare anche energia pulita e a costo ragionevole”.
Vedremo, la sfida per il controllo dei mercati dell’energia sembra appena cominciata.