Si è soliti dire che tra i due litiganti il terzo gode. Una massima che rischia di aderire come una seconda pelle alle prossime elezioni regionali siciliane. I due litiganti sono ovviamente il centrodestra ed il centrosinistra. Oggetto della contesa: Angelino Alfano. Nemmeno fosse Elena di Troia. Corteggiato ed odiato, seppure con diversa intensità, da elementi dei due schieramenti.
Angelino sta giocando la sua partita, alla ricerca di un’assicurazione preventiva che gli consenta di sopravvivere al cataclisma prossimo futuro: quello delle elezioni nazionali. Sceglierà secondo le proprie convenienze, anche a rischio di perdersi per strada alcuni dei vecchi compagni di cordata. Storico dilemma di ogni forza centrista, quando non si ha la forza di essere autonoma e resistere all’attrazione gravitazionale dei due schieramenti più consistenti.
Scelta tattica comprensibile. Primum vivere, deinde philosophari. Meno comprensibile è l’atteggiamento di chi ha remato contro fin dall’inizio. Soprattutto Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Contro il cui divieto si è dovuto arrendere alla fine Gianfranco Miccichè. Siciliano, profondo conoscitore delle regole e delle leggi vigenti nella sua Regione, ha fatto di tutto per scongiurare un possibile disastro annunciato. Purtroppo senza successo: almeno a quanto sembra. Alla fine il sentimento identitario, la ripicca contro i reprobi ha prevalso. Che muoia Sansone con tutti i Filistei.
Scelta poco ragionevole, che non tiene conto della “strana” legge elettorale siciliana. Quest’ultima è stata recentemente modificata riducendo da 90 a 70 il numero dei seggi da assegnare. Ma l’impianto é rimasto quello che Miccichè conosce bene. Il sistema è quello elettorale, con una soglia di sbarramento del 5 per cento. Sulla base dei voti riportati dalle liste di appoggio al candidato presidente sono assegnati 62 seggi, fino ad una massimo del 60 per cento del totale. Gli 8 seggi che mancano sono la dote del candidato presidente, grazie all’esistenza di uno specifico listino.
Non é ammesso il voto disgiunto. Il candidato presidente può, quindi, prendere solo i voti delle liste che appoggiano la sua candidatura. Ne deriva che ha poco senso cercare un candidato “super partes”. Può intercettare una parte del voto di opinione, ma la sua forza vera è data dal numero e dalla sostanza delle liste apparentate. Circostanza che spiega l’alto valore marginale di una formazione politica, anche se è piccola, come quella che fa capo all’attuale ministro degli Esteri.
Sulla carta gli schieramenti contrapposti hanno più o meno la stessa forza elettorale, con una leggera prevalenza, secondo i sondaggi, del Movimento 5 stelle. Vincerà chi riuscirà a prendere un solo voto in più rispetto ai propri avversari. Essendo limitata la dispersione dei resti, a causa dello sbarramento del 5 per cento, la soglia minima per vincere può essere collocata intorno al 33 per cento dei voti espressi. Grazie al premio di maggioranza, quel voto di differenza comporta circa 29 consiglieri. Che non sono ancora maggioranza dell’Assemblea. Si possono quindi vincere le elezioni, ma non governare. Per raggiungere questa soglia di sicurezza sarebbe necessaria una percentuale intorno al 45 per cento dei voti espressi.
Il problema é capire come si comporteranno quegli elettori che ritengono persa in partenza la possibilità di una vittoria della propria lista di riferimento. Faranno opera di testimonianza o voteranno “contro”, il candidato più lontano dal loro sentire, secondo lo schema più tipico del maggioritario? Scatterà in altri termini la sindrome del “voto utile” seppure come sbarramento nei confronti dell’odiato rivale?
Come si vede gli elementi di previsione sono imponderabili. Tuttavia il caso delle elezioni amministrative di Roma può costituire un indizio. La vittoria schiacciante di Virginia Raggi fu determinata dagli elettori del centrodestra, che vollero punire Roberto Giachetti. Se si ragiona con un minimo di distacco le analogie tra le due situazioni, con il susseguirsi di veti reciproci, hanno qualcosa in comune. Ed allora il rischio che tra i due litiganti, come si diceva all’inizio, il terzo goda (nel qual caso i 5 stelle) diventa reale. Tanto più che lo Statuto siciliano prevede che in caso di dimissioni del presidente della Regione si torni a votare. Prospettiva che spingerà molti a giocare d’anticipo e votare per la stabilità e contro le bizze dei vecchi politici.