Chi cercasse la “verità” sulla complessa e controversa personalità del principe di Talleyrand nella raffinata, elegante ed arguta biografia che gli dedicò Charles-Augustine de Sainte-Beuve (1804-1869), resterebbe deluso. Per quanto il grande critico letterario francese si sia adoperato per ritrarre nella maniera più accattivante e nel contempo più aderente alla realtà la figura del grande statista, bisogna concludere che non è riuscito nell’intento non per sua colpa, ma a ragione dello sfuggente personaggio che poco si prestava all’epoca (e forse non si presta ancora) ad essere ritratto in tutti gli aspetti della sua personalità. E paradossalmente l’incompletezza del lavoro di Sainte-Beuve è il dato più rilevante che ci immette nell’universo di Talleyrand fatto ricco di particolari che non sono giudicabili con il metro della comune coscienza morale e politica. Perciò la lettura di Talleyrand, riproposto dall’editore Nino Aragno (pp.167, 15,00 euro), con una preziosa prefazione di Francesco Perfetti nella quale si dà conto delle qualità del biografo, ma anche del biografato con poche pennellate che valgono a descriverne la statura non meno che i lati discutibili ancora non del tutto sciorinati, è un libro essenziale per addentrarsi nei meandri inesplorati e nel clima di un epoca torbida e splendente che avrebbe dato il tono ai secoli successivi.
Per Perfetti Talleyrand fu “un uomo di grande, grandissima intelligenza e di eccezionale capacità manovriera oltre che un mostro di abilità diplomatica. Fu capace di inserirsi e transitare fra le pieghe della storia”. Ecco proprio questo rimane del principe di Benevento che lo rende ad un tempo affascinante e ributtante e tra questi due estremi Sainte-Beuve si muove nel delinearne la figura con la classe del critico letterario piuttosto che dell’analista politico. Del resto egli, come nel caso di Talleyrand, prendeva spunto da un libro per farne una recensione che a sua volta diventava un volume con tutti i limiti, ma anche con i molti pregi che un tale genere brillante e succinto (ma fino ad un certo punto) poteva avere. Nel caso specifico a Sainte-Beuve l’occasione per dedicare un profilo a Talleyrand gli venne offerta dalla pubblicazione del volume di Henry Lytton Bulwer, diplomatico e politico liberale inglese, fratello del più noto scrittore Edward, che oltre ad aver ricoperto numerosi ed importanti incarichi in varie cancellerie, tra le quali quella di Washington, scrisse anche una monumentale biografia in cinque volumi di Lord Palmerston.
L’intento di Sainte-Beuve non era quello di confutare Bulwer, ma di trarre spunto dalla sua ricostruzione per riproporre a pochi anni dalla morte la storia di un grande uomo, insuperabile in cinismo ed intelligenza, campione di coerenza soltanto riguardo alla difesa dei suoi interessi nella quale riuscì benissimo al punto di identificare il suo “patriottismo” con il patriottismo del proprio portafoglio e delle relazioni che ne garantivano il potere sotto ogni regime e a prescindere dal “padrone” che era chiamato a servire. Chateaubriand, uomo dal temperamento opposto a quello di Talleyrand, ricorda Sainte-Beuve, disse: “Quando Talleyrand non cospira, traffica”. Purissima verità. La pensava più o meno come Napoleone per il quale il suo ministro degli esteri era “merda in guanto di seta”, aggiungendo, nel momento della caduta: “Sono quelli che ho più innalzato, che mi hanno abbandonato per primi”, riferendosi oltre che a Talleyrand anche al suo ministro di polizia Joseph Fouché, il “diavolo zoppo” ed il suo compare, insomma, come li ha definiti Alessandra Necci in una sontuosa biografia parallela pubblicata da Marsilio un paio d’anni fa, per quanto “nemici” oggettivamente alleati nel piegare le ragioni dello Stato alle loro ragioni. Fino all’affermazione dello “spirito” e della pratica della Rivoluzione, sulla giostra della politica francese lo “scandalo” del tradimento era quasi sempre stato biasimato o condannato. Le fazioni si erano accese a difesa o a denigrazione di questo o di quello. Auspici gli eventi del 1789, culminati nel Terrore, nessuno sembrò più far caso ai misfatti ordinari di Talleyrand, ecclesiastico rinnegato, disposto ad offrirsi a chiunque fosse disposto a pagarlo salvo tradirlo al momento opportuno. alla momento più conveniente. L’immoralità venne “costituzionalizzata” dai comportamenti dei rivoluzionari e, segnatamente, da coloro che agirono, spinti da follia omicida, per distruggere a maggior gloria delle loro callide anime forgiate nell’odio: Danton, Marat, Robespierre furono i démoni che fecero irruzione nella vita dei popoli ed ispirarono i genocidi che per due secoli si sono succeduti in ogni angolo del mondo.
Talleyrand condivise la barbarie della triade più triste e sinistra della storia europea moderna, e se ne servì con disinvoltura tranne rinnegarla quando il vento mutò. Un giacobino aristocratico, insomma, che si appropriò della Rivoluzione per bramosia di potere con frenesia dimostrata fino alla fine segnata dal trionfo della Restaurazione con Congresso di Vienna (1814-1815) quando Talleyrand riuscì a ridisegnare, grazie ad un gioco sottile ed intelligente di alleanze con i vecchi nemici la geopolitica europea.
Chateaubriand, descrivendo l’arrivo di Talleyrand e Fouché al cospetto di Luigi XVIII, passata la bufera napoleonica, per sottoscrivere l’ennesimo giuramento di fedeltà che poco dopo sarebbe volato via come uno straccio inservibile, li definì icasticamente “il vizio appoggiato al braccio del crimine”. Il vizio era il primo; il crimine, il secondo.
Rampollo di una famiglia di antica nobiltà, Talleyrand nacque a Parigi il 2 febbraio 1754 da Charles Daniel de Talleyrand conte di Périgord e da Alexandrine de Damas d’Antigny; i genitori risiedevano abitualmente a Versailles, anche se a causa della scarsa disponibilità economica facevano poca vita di Corte. Fratello di suo padre era Alexandre-Angélique de Talleyrand-Périgord (1736 – 1821), arcivescovo di Reims e successivamente cardinale arcivescovo di Parigi, al quale Talleyrand sarà legato per tutta la vita.
Convertitosi alla Rivoluzione, Talleyrand se non fu un regicida conclamato, ci mancò poco: il calcolo, come al solito lo tenne lontano dall’estremizzare le sue posizioni il parvenu se ne assunse la gloria e così riuscì a fare carriera. A causa dell’infermità infantile ad un piede che lo rese zoppo, Talleyrand non poté essere destinato alla carriera militare e venne avviato agli studi religiosi. Per quanto riluttante, riuscì a monetizzare perfino questa imposizione incurante che le naturali inclinazioni libertine non si ci facevano alla sua condizione, fino a diventare vescovo di Autun.
Ricevuti gli ordini minori nel 1775 Talleyrand pronuncia i voti e diviene canonico della Cattedrale di Reims, la diocesi dello zio. L’11 giugno 1775 assiste alla consacrazione di Luigi XVI e nel dicembre 1779 viene ordinato sacerdote, quindi ottiene l’assegnazione dell’Abbazia di Saint-Remy a Reims, con annesse prebende; naturalmente non prende dimora presso l’Abbazia che gli è stata assegnata ma si stabilisce a Parigi. Si mette subito in luce per la sua oratori brillante e sicura e l’abilità dialettica con cui difende le sue posizioni: per questo motivo riesce ben presto a farsi eleggere, sempre con l’apporto dello zio, deputato di “secondo Ordine” all’Assemblea generale del clero francese. Nel 1780 è nominato agente generale per il clero di Francia grazie all’abilità con cui ha sostenuto, nel corso della quinquennale Assemblea della Chiesa gallicana, la difesa dei beni della Chiesa dalle mire del fisco di Luigi XVI, riuscendo però due anni più tardi a far votare dalla stessa Assemblea un “dono gratuito” di 15 milioni di livres al sovrano, come contribuzione alle casse statali. Tale carica, equivalente a un dicastero delle Finanze statali, gli permetterà di rendersi conto delle ricchezze della Chiesa francese e di diventare amico e consigliere dell’allora ministro delle finanze francese, Calonne, suo mentore presso Luigi XVI.
Tra amori illeciti, amicizie spregiudicate, giravolte funamboliche, Talleyrand arriva all’appuntamento con la Rivoluzione grazie alla partecipazione ai lavori dell’Assemblea nazionale e poi di seguito a tutte le fasi che caratterizzeranno la fine della monarchia che lui agevolerà, ma tenendosi lontano dal Terrore fino ad espatriare in Inghilterra per salvare la pelle se non gli averi. Anche qui non è al sicuro e si porta negli Stati Uniti, in quel nuovo mondo in cui è capace di ricostruire ciò che ha perso, o almeno parte del suo patrimonio fino al ritorno in Francia dove si profila l’ascesa di Napoleone Bonaparte ed i fuochi appiccati dai terroristi giacobini vanno spegnendosi.
La svolta decisiva avviene nel 1804. Talleyrand convince Napoleone che è venuto il tempo in cui “la sedia curule del Primo console si tramuti in trono”. C’è bisogno di un fatto scatenante. Un complotto. Lo si fabbrica, in accordo con Napoleone, imputando al casato dei Borbone una congiura per far fuori Bonaparte. Il capo sarebbe il dica d’Enghien. Per ordine del Primo console, il duca di Enghien fu arrestato da un reparto di cavalleggeri appartenenti alla Guardia imperiale nel Baden, violando apertamente la sovranità di uno Stato estero, condotto Parigi venne fucilato il 21 marzo. Nelle sue memorie Napoleone comunque attribuirà solo a sé stesso la responsabilità dell’«errore» anche se al tempo fece di tutto per gettarla sul solo Talleyrand del quale Chateaubriand scrisse: “Allorché Monsieur de Talleyrand, prete e gentiluomo, ispirò e preparò il delitto esercitando su Bonaparte la sua pressante insistenza, temeva il ritorno del legittimismo”. Tra i Borbone e Napoleone, insomma, volle mettere un fiume di sangue, come fu detto all’epoca.
Nell’agosto 1834 Talleyrand lasciò la vita pubblica e si ritirò nel castello di Valençay, dove risiedette fino 1837, quando si rese conto che i suoi giorni stavano per finire. Si spense, infatti, il 17 maggio 1838, ricordando, non senza arroganza, sul letto di morte all’abate che gli dava l’estrema unzione, che era un vescovo: forse per farlo intendere all’Eterno affinché gli rimettesse tutti i peccati come spesso era riuscito a farseli condonare dagli uomini, compresi dalla Curia romana alla quale indirizzò negli ultimi istanti della sua vita una specie di atto di sottomissione che venne accettato. Ma non bastò a redimerlo.
Ernest Renan, davanti al cadavere del più crudele dei traditori dell’età moderna disse che Talleyrand era riuscito a ingannare la terra e il cielo. Una delle tante prove fu il discorso, l’ultimo, che tenne all’Accademia in onore del muso amico Reinhardt; un discorso rilevante ed affascinante nel quale teorizzò la equipollenza tra diplomazia e teologia, lasciando estasiati gli astanti molti dei quali inneggiarono fino a proclamarlo come l’apparizione del “nuovo Voltaire”. Ma non era Voltaire, scrisse Sainte-Beuve. Il filosofo, a differenza di Talleyrand, “era sincero, appassionato, posseduto fino all’ultimo sospiro dal desiderio di cambiare, migliorare, perfezionare le cose attorno a sé; perché egli aveva il proselitismo del buon senso; perché siano alla sua ultima ora, e finché la sua intelligenza fu presente a se stessa, respinse con orrore quanto gli sembrava falso e menzognero; perché, nella sua nobile, perpetua febbre, era di coloro che hanno il diritto di dire di sé: Ex Deus in nobis; perché, finché un soffio di vita lo animò, ebbe in sé ciò che chiamo il demone buono, lo sdegno e l’ardore”.
Tutto il contrario di Talleyrand. E forse in questa opposizione così marcata con Voltaire, Sainte-Beuve esce dalla riservatezza per dare infine un giudizio morale. Che non può essere che negativo. Ma la politica, ci si chiede ancora oggi, a due secoli dall’ultimo trionfo di Talleyrand, in quel Congresso di Vienna che, da “sconfitto” dominò comunque insieme con Metternich, antico nemico, può accompagnarsi o meglio farsi guidare dalla morale? Interrogativo eterno al quale ognuno, in ogni tempo ha cercato di rispondere a suo modo. Sainte-Beuve non si esprime. Lascia a Talleyrand le conclusioni. False come la sua vita e perfino la sua morte, una sceneggiata quest’ultima, degna della Parigi ancora in cerca di assetti formali di potere e priva dell’unico uomo che forse glieli avrebbe potuti offrire. Un paradosso, della storia, della politica e – perché no – della morale stessa.