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I crucci di Donald Trump sull’Afghanistan

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Stasera alle nove, ora dell’Est Coast americana, Donald Trump rivelerà la sua decisione finale sulla strategia da adottare sul dossier Afghanistan (e Asia meridionale in generale). Il presidente parlerà da Fort Myer, vicino al cimitero di Arlington, in Virginia, luogo simbolico per il lancio di un piano militare. Per il momento non ci sono molte informazioni su quel che Trump dirà. Il presidente detesta la questione: la considera una pratica odiosa ereditata dai suoi predecessori e vede che la situazione non solo non sta migliorando, ma sta peggiorando davanti alle nuove ondate offensive talebane e alla creazione di un gruppo corposo di combattenti baghdadisti. L’ultimo report fornito al Congresso dallo Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction dice che soltanto il 57 per cento delle province afghane è sotto il controllo de governo locale. Il dato è del novembre 2016, e segna una diminuzione del 15 per cento rispetto all’anno precedente.

LE DIVISIONI INTERNE

L’Afghanistan inoltre cozza con l’America First, l’idea pseudo-isolazionista alla base del trumpismo, perché è un dossier che richiede inevitabilmente un nuovo sforzo militare americano per non mandare all’aria anni di impegni e toccanti sacrifici (i caduti sono stati molti, i veterani che hanno riportato danni fisici o mentali permanenti ancora di più). Fino a pochi giorni fa ogni riunione del circolo ristretto attorno alla presidenza in cui si parlava della situazione afghana finiva in cagnara. Da un lato ci sono i generali (e chi sta con loro), persone come il capo del Pentagono Jim Mattis – è stato lui a dire, domenica, che sarà Trump il primo a dire come affronterà la situazione afghana la nuova amministrazione americana – o il Consigliere per la Sicurezza Nazionale HR McMaster, dall’altro gli strateghi del primato americano sugli interessi che Washington deve curare. Le due anime dell’amministrazione e soprattutto della Casa Bianca, insomma. L’estromissione dell’ideologo politico del trumpismo (anche prima di Trump), Steve Bannon, dall’incarico di stratega politico del presidente, potrebbe aver fatto scorrere il dossier in modo più fluido in questi ultimi giorni. Anche perché adesso il capo dello staff presidenziale è John Kelly, un altro generale.

L’APPROCCIO PRAGMATICO DEI GENERALI

I generali seguono un approccio pragmatico, e non possono dimenticare di aver combattuto e perso uomini nel conflitto. Mattis ha pronta una delega firmata da Trump che lo autorizza all’invio di almeno 4000 soldati per rinforzare il contingente già presente (che ha anche il compito di formare le forze di sicurezza locali e fornire consulenza avanzata alle forze speciali afghane), ma non è mai stata usata per non alterare gli equilibri della presidenza e perché Mattis chiedeva prima di conoscere la strategia di Trump – “Non stiamo vincendo in questo momento”, ha detto a giugno Mattis in audizione al Senato (dichiarazione detestata da Trump perché include che lui stesso sta perdendo). Già Barack Obama aveva promesso il ritiro (era un’America First travestita da pacifismo, ma l’ottica era simile), però nell’ultimo anno della sua presidenza si era trovato costretto a confermare un corposo contingente perché il regime change voluto dalla Guerra al Terrore di George Bush tutt’altro che funziona. Trump è molto diffidente: individua in John Nicholson, il generale a capo del contingente americano in Afghanistan, il colpevole della situazione. È un capro espiatorio che potrebbe essere sacrificato per rilanciare politicamente la strategia, anche se finora non ci sono stati motivi formali per il suo licenziamento – e Mattis, McMaster e Kelly sono dalla parte di Nicholson.

I PIANI ALTERNATIVI

Il piano di Trump arriverà dopo mesi di revisione interna ordinata proprio dalla Studio Ovale sull’attuale strategia: l’annuncio, la soluzione, era prevista per metà luglio, e il ritardo di oltre un mese è conseguenza della crisi interna che il dossier si porta dietro. Un’opzione in aiuto al presidente è arrivata sulla scrivania dello Studio Ovale a firma di Erik Prince. L’ex fondatore di Balckwater, la discussa società di contractor militari, ora guida un’azienda simile e propone l’impiego di 5500 soldati privati, con tanto di supporto aereo ravvicinato di cui lui stesso si occuperà, al posto delle truppe regolari. È un disimpegno da cui Trump potrebbe essere allettato, e Prince ha ottime entrature nell’amministrazione, essendo il fratello di Betsy DeVos, trumpiana segretaria all’Istruzione. Sia il governo afghano che il Pentagono hanno posto il veto al piano perché presenta troppo troppe criticità, ma citarlo, oltre che dare la dimensione di come la questione sia stata affrontata da Trump, è importante perché ancora il 14 agosto Mattis dichiarava che il presidente stava ragionando sia sul ritiro completo, sia sull’invio di contractors, sia su un irrobustimento del contingente regolare. Venerdì 18 a Camp David c’è stato un meeting di alto livello a cui hanno partecipato con il presidente membri dell’amministrazione e delle forze armate: è da lì che dovrebbe essere uscita la strategia definitiva.

TRUMP CHIEDE FIDUCIA

Secondo quanto riportano i media americani, Trump, nel suo primo discorso televisivo alla nazione, chiederà ai cittadini americani di credere in lui, perché molto probabilmente annuncerà che l’invio di più soldati (quello di 4 mila uomini su cui il Pentagono ha già avuto carta bianca) è La strategia. E così, l’odiato dossier afghano – già la più lunga guerra della storia americana – diventerà un argomento politico nel momento in cui la sua posizione politica è debole come non mai. Trump resta scettico sulla presenza militare americana in Afghanistan, ma ha chiaro che il vuoto che un abbandono lascerebbe, potrebbe essere riempito dai gruppi jihadisti. Il 13 agosto il Pentagono ha fatto sapere di aver ucciso tre giorni prima l’emiro della provincia di Kunar, un’area montagnosa e teoricamente protetta, parte della Wilayah del Khorasan, che è il nome storico con cui lo Stato islamico definisce la propria presenza a cavallo tra Afghanistan e Pakistan. Il leader baghdadista era in odore di diventare il capo del Califfato di tutta l’area del sudest asiatico, e si tratta del quarto importante comandante eliminato dai bombardamenti americani (il secondo in soli due mesi). Queste operazioni sono frutto di una robusta e articolata presenza sul campo. I risultati del discorso di Trump arriveranno presto, e si vedrà se i suoi elettori gli concederanno fiducia sotto forma di partecipazione al rally stile elettorale che terrà in Arizona martedì (c’è un argomento a favore di Trump: restare in Afghanistan potrebbe permettere agli americani di sfruttare alcune risorse minerarie del paese e giocare d’anticipo sui cinesi, ma forse è un aspetto blando).

 


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