Il 28 agosto scorso Kim Jong-un, il temerario ed irresponsabile leader coreano, ha bussato con violenza alle porte di Tokyo, facendo volare per 2700 chilometri, a un’altezza di 550, un missile che dopo aver oltrepassato l’isola di Hokkaido si è inabissato nel Mare del Giappone. “È una minaccia grave e senza precedenti”, ha dichiarato il portavoce del governo nipponico. E non è stata la prima volta: era già accaduto nel 1998 e nel 2009, anche se allora Pyongyang mascherò la provocazione facendola apparire come test per un satellite. Ma il diciottesimo missile lanciato dalla Corea del Nord questa volta non ha lasciato indifferente il Giappone dove nessuno ha minimizzato la portata dell’evento consapevoli tutti della follia di Kim Jong-un. Al momento del lancio le emittenti televisive e radiofoniche giapponesi hanno interrotto la programmazione con avviso di “J-Alert”. I treni sono stati temporaneamente fermati, l’allarme è risuonato dagli altoparlanti di Hokkaido. Il panico è calato sul Giappone. La memoria si è riaccesa. Tutti, i pochi testimoni ancora vivi, i discendenti dei superstiti, coloro che hanno vissuto indirettamente la catastrofe nucleare di settantadue anni fa, non hanno potuto fare a meno di fermare il tempo. Le cronache hanno riportato tra le molte testimonianze questa di Ayaka Nishijima, 41 anni, impiegato nell’isola di Honshu: “Sono stato svegliato da un messaggio sul mio cellulare e non mi sono sentito affatto pronto. Anche se ci arrivano questi avvisi non possiamo fare nulla. Non abbiamo rifugi, possiamo solo scappare dalla finestra..”. Il testo diceva: “Un missile è stato lanciato dalla Corea del Nord. Per cortesia ritiratevi in un edificio solido o un seminterrato”.
Per Tokyo “il lancio è un atto di un’estrema gravità e costituisce una seria minaccia per la sicurezza dell’intera regione”, ha detto il premier nipponico Shinzo Abe per il quale non è il momento opportuno per il dialogo e, dunque, non si può allentare la pressione sul regime di Pyongyang.
Il Giappone vittima designata? Sembrerebbe di sì. Alla notizia non ho potuto fare a meno, conoscendo i sentimenti di quel popolo, di riandare con con la mente a quel “passato che non passa”, che non può passare. Ho tirato giù dagli scaffali il vecchio e coinvolgente libro-reportage di John Hersey, Hiroshima, ripubblicato due anni fa da Skira, e mi sono immerso nelle ombre ridestate dal missile di Pyongyang.
L’Apocalisse si manifestò il 6 agosto 1945 alle 8.15. “Enola Gay”, il bombardiere americano approntato per l’operazione, sganciò sul centro di Hiroshima “Little Boy”. L’esplosione si verificò a 580 metri dal suolo uccidendo sul colpo circa ottantamila persone. Quelli che restarono permanentemente infermi furono migliaia. Il 90% degli edifici venne completamente raso al suolo e tutti i 51 templi della città vennero distrutti. Un crimine contro l’umanità feroce e ingiustificato.
Dopo la devastazione di Hiroshima, il Presidente americano Henry Truman, comandante in capo delle forze armate e responsabile principale dell’operazione, con glaciale cinismo diede l’ultimatum: «Se non accettano adesso le nostre condizioni, si possono aspettare una pioggia di distruzione dall’alto, come mai se ne sono viste su questa terra». Il Giappone da lì a poco capitolò. Settanta anni dopo il ricordo di quell’immane tragedia, che giorni dopo venne completata con l’annientamento di Nagasaki, non sembra più destare emozioni. Le coscienze si sono assuefatte all’orrore. E nel lungo tempo che è trascorso, la “più grande democrazia del mondo” non ha trovato il modo per scusarsi; anzi, ha fatto del Giappone smilitarizzato il suo avamposto in Estremo Oriente. Eppure le tracce di quell’eccidio sono ancora visibili ed i danni permanenti arrecati al popolo non sono stati ancora sanati.
Il libro di Hersey, diventato un classico dalla prima lontana edizione, è la più lucida, penetrante e commovente inchiesta sull’eccidio che il reporter effettuò di due tempi, nel 1946 pubblicando sul “New Yorker” le storie di sei sopravvissuti e nel 1985 quando tornò in Giappone per verificare le condizioni degli stessi. Hersey incontrò e raccontò le vicissitudini della signorina Toshiko Sasaki impiegata in una fonderia, del medico Masakazu Fujii, della sarta Hatsuyo Nakamura, del gesuita Wilhelm Kleinsorge, del giovane chirurgo Terufumi Sasaki, del pastore metodista Kiyoshi Tanimoto. Da esse rappresentò squarci di umanità che riassumono, per chi legge ancora oggi, la fuga dalla morte e la resurrezione di una nazione. Per quanto minute siano, le vicende dei protagonisti di Hiroshima costituiscono le prove di come esseri colpiti da una dannazione inimmaginabile possano rialzarsi e vivere accanto alle assenze che ne hanno segnato drammaticamente le vite.
Vincere l’emozione non è facile scorrendo le pagine di Hersey che scossero gli americani quando le lessero. Tuttavia la vivida descrizione di esistenze mutilate e poi ricomposte nel dolore dà il senso di un orgoglioso sentire che è parte di una cultura ancestrale la quale forse solo oggi, nel tempo della omologazione globale, sfugge alle giovani generazioni giapponesi distratte da quell’occidentalismo del quale in alcuni casi incarnano il peggio. Tra i ricordi più vividi e coinvolgenti c’è quello del reverendo Tanimoto che, anni dopo il bombardamento, scrisse ad un amico americano raccontando la rocambolesca salvezza di un vecchio professore di letteratura. Questi, rimasto seppellito sotto la sua casa insieme con il figlio e consapevoli entrambi di essere spacciati, decisero come affrontare la fine. Ecco un brandello dello struggente dialogo: “Padre, non ci resta altro da fare che sacrificare le nostre vite per la patria. Auguriamo Banzai al nostro Imperatore”. Il padre si unì a lui: “Tenno-heika, Banzai, Banzai, Banzai” (che significa “Lunga vita all’ Imperatore”). A quel punto il vecchio professore confessò che “un sentimento di lucidità e di calma invase il mio cuore quando augurai Banzai al Tenno”. Poi il figlio riuscì a liberarsi e a tirar fuori il genitore che anni dopo ripeteva:”Che fortuna che siamo giapponesi! Mai ho provato un sentimento così meraviglioso come quando ho deciso di morire per il nostro Imperatore”.
Sempre secondo al testimonianza del pastore metodista, un gruppo di studentesse liceali venne avvolto dal fumo mentre riposavano a ridosso della palizzata che crollò su di esse nei pressi di un tempio buddista. Impossibilitate a muoversi, una di loro intonò, per farsi e fare coraggio, l’inno nazionale. Nel frattempo un’altra trovò un varco e riuscì a scappare. All’ospedale raccontò com’erano morte le sue amiche, tornando con la memoria a quell’inno cantato in coro. “Avevano solo tredici anni. Sì, la gente di Hiroshima morì con coraggio sotto il bombardamento atomico, convinta che fosse per il bene dell’Imperatore”.
Coloro che sopravvissero non furono meno coraggiosi. Le sei storie raccolte come foglie da Hersey lo provano inoppugnabilmente.
Non so se in Giappone lo spirito si sia assuefatto ai dettati dei vincitori completamente. Lo sospetto. Ma credo anche che lo sgomento, se non proprio il panico, che ha sconvolto la vita dei giapponesi alla fine dello scorso agosto li abbia anche indotti a tentare con i frammenti di memoria disponibili la ricostruzione di un puzzle che è parte integrante della loro identità storica e civile. E più d’uno, credo, si sarà chiesto se la prossima Apocalisse toccherà ancora al Giappone, una nazione ben diversa da quella del 1945 che Hersey raccontò anni dopo e che rappresenta ancora una testimonianza vivida di una storia che niente e nessuno potrà cancellare. Anche per questo opporsi ai “giochi proibiti” del tiranno di Pyongyang è un imperativo morale per tutta l’umanità.