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Goffredo Fofi fofeggia su Dunkirk

Per una serie di impegni, avevo quasi deciso di non andare a vedere “Dunkirk”, il film di Christopher Nolan su una delle pagine più drammatiche della Seconda Guerra Mondiale. Il titolo è proprio questo: non “Dunkerque”, ma “Dunkirk” appunto, anglicizzando pure il nome, a testimonianza di una vicenda incancellabile nella memoria collettiva inglese.

Ma la feroce stroncatura di Goffredo Fofi pubblicata da Internazionale mi ha convinto: anzi, mi ha dato la ragionevole certezza che, dinanzi a una critica così violenta, pregiudiziale, ideologica, il film meritasse di essere visto e forse elogiato. Avendo visto il film, posso togliere il “forse”.

Ma citiamo subito alcune perle del Fofi: “Film brutto e detestabile per molti motivi, un fallimento anche spettacolare e anche per lo standard ruffiano ma solitamente efficiente del suo autore-demiurgo” [… ] “Film, tronfio e meccanico e noioso” []“gli umani sono infatti marionette che esprimono – a uso e gloria dei cittadini odierni dell’ex impero britannico (che comprendeva un tempo quasi tutta l’America del nord) – una morale da Brexit, e nessuna verità, neanche l’ombra di un dubbio sui loro politici e sui loro generali”.

Non vi basta ancora? Andiamo alle conclusioni di Fofi, ormai in crisi nevrastenica:“…il film di Nolan, la cui maggiore odiosità sta nel cosciente o incosciente progetto di abituare i giovani spettatori a una visione della guerra imbecille e retorica e disumana. Quei giovani spettatori che ben potrebbero, in mano a governanti mascalzoni e a un capitalismo guerrafondaio che domina i mezzi di comunicazione e finanzia i Dunkirk, trovarsi a fungere da carne da macello per le guerre future, come già accade in molte parti del pianeta”.

Non serve Freud per capire che qui, più che il giudizio su un film e su un regista, c’è un’antica e mai sopita ostilità verso l’Anglosfera e l’Occidente. C’è (tipico nella sinistra italiana) l’essere sì antifascisti e antinazisti, ma non antitotalitari: e dunque un malcelato risentimento di fondo verso l’Inghilterra e gli Stati Uniti.

Ma lasciamo il Fofi al suo destino e veniamo al film. Che coglie il punto ideale in modo a mio avviso mirabile: non si tratta solo di contrapporsi al nazismo, ma di affermare i valori occidentali, il significato di ogni vita, l’equivalenza tra libertà e vita, la consapevolezza di come il male debba essere contrastato anche quando si teme di essere in drammatica inferiorità.

La storia della battaglia di Dunkerque è nota. L’offensiva tedesca sembra inarrestabile. Le forze britanniche (e francesi) sono irrimediabilmente sconfitte, isolate, intrappolate. Con una missione letteralmente impossibile e anche grazie al decisivo coinvolgimento delle imbarcazioni civili, quasi 400mila soldati alleati superstiti vengono evacuati, sfuggendo alla prigionia, e riportati in Gran Bretagna per riprendere a combattere. Una chiara sconfitta sul campo, ma insieme una netta vittoria morale.

Il film è credibile: questa è la parola chiave. Credibile e accurata la ricostruzione storica. Credibilissimi gli attori (meravigliosa, accanto a un paio di mostri sacri come Kenneth Branagh e Mark Rylance, la prova di una galleria di giovanissimi, da Fionn Whitehead a Jack Lowden, passando per Barry Keoghan e Harry Styles). Paragonateli agli attori di gran moda in Italia, tra i tinelli, le mezze crisi e le modeste nevrosi di cui si occupa il nostro cinema, e vi verranno le lacrime (ma non di commozione: semmai di mortificazione per noi).

Credibile l’intreccio tra le tre storie: la storia principale della massa umana radunata sulla spiaggia di Dunkerque sotto il fuoco tedesco, e le storie complementari delle unità di aviazione che giungono a supporto, e soprattutto di una delle centinaia e centinaia di imbarcazioni private che collaborano al salvataggio.

Credibile l’intreccio tra il grande dramma collettivo e le singole avventure individuali: con il messaggio ossessivo (e altissimo) del valore di ogni singola vita, di ogni singolo corpo da salvare.

Tutto (luci, suoni, colori, commento musicale) rende bene il senso dell’incubo. Si apre il cuore alla speranza solo all’apparire delle migliaia di barche private (“vedo la patria”, dice Kenneth Branagh scorgendo con il binocolo l’arrivo dei salvatori). Ma poi tutto torna sotto un velo di angoscia, perché, anche dopo il salvataggio, la guerra è ancora tutta da combattere, e il nemico sembra molto più forte.

Qualcuno ha commentato negativamente l’essenzialità dei dialoghi. Ma questo – a mio avviso – fa parte del senso del film: non c’è da “chiacchierare”, e i pochi dialoghi del film sono letteralmente scolpiti per la rilevanza delle parole pronunciate.

E poi il finale, con il gigantesco discorso di Churchill, reso nel film con uno stratagemma che non rivelo: “Andremo avanti fino alla fine. Combatteremo in Francia, combatteremo sui mari e sugli oceani, combatteremo in aria con crescente forza e sicurezza, combatteremo in difesa della nostra isola, qualunque sarà il prezzo che dovremo pagare. Combatteremo sulle spiagge, combatteremo sulle teste di sbarco, combatteremo nei campi e nelle strade, combatteremo sulle colline. E non ci arrenderemo mai”.

Andate a vederlo ed emozionatevi. Ritroverete le ragioni del nostro Occidente, della nostra civiltà. E sorriderete di Fofi e del fofismo.

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Non dimentichiamo mai il contesto in cui Churchill si trova ad operare. La battaglia di Dunkerque è tra fine maggio e primi di giugno del 1940. Esattamente il periodo della celebre riunione (fine maggio del 1940, appunto), durata tre giorni, del Gabinetto di guerra del Governo inglese. Restare o no in una guerra che appare già irrimediabilmente persa per l’Inghilterra? Oppure tentare un accordo, un appeasement, sia pure umiliante, per salvare il salvabile?

Oggi, 77 anni dopo, sappiamo come sia andata la storia, ma l’avanzata di Hitler sembra irrefrenabile, in quel momento. Sotto il tallone nazista, sono già cadute, in ordine sparso: Austria, Cecoslovacchia, Polonia, Norvegia, Danimarca, Olanda e Belgio. La Francia sta per capitolare. L’Italia è pronta a sostenere la Germania. La Russia si muove ancora nella logica del Patto Ribbentrop-Molotov. L’America è ancora distante dal conflitto. L’Inghilterra appare quindi isolatissima, fragile, senza alleati, con un destino segnato. Tutti hanno ben conosciuto (appena 22 anni prima) gli orrori della Prima Guerra Mondiale: Churchill stesso ha vissuto il campo di battaglia, uccidendo e rischiando più volte di essere ucciso, dando prova di un enorme coraggio personale.

Dentro il War Cabinet, Churchill sembra quindi accerchiato. È Primo Ministro da appena tre settimane, peraltro dopo una vicenda parlamentare contestatissima; lo sostengono, a quel tavolo, liberali e laburisti, mentre sconta tutta la freddezza dei conservatori (che aveva lasciato anni prima a favore dei liberali, salvo poi ritornare nel partito, ma subendo accuse sanguinose: avventuriero politico, voltagabbana, opportunista senza principi); l’autorevole Lord Halifax, ministro degli esteri, sostiene una proposta di “mediazione” avanzata dall’Italia; il grosso della società inglese chiede l’appeasement; i maggiori giornali inglesi vogliono un negoziato, e addirittura allontanano gli editorialisti e i commentatori di opinione diversa; l’ambasciatore americano in Inghilterra, Joe Kennedy (il padre di JFK) spinge per un accordo con i nazisti.

Contro tutto questo, con un intervento memorabile nel War Cabinet, Churchill (che, da Primo Ministro, è soltanto un primus inter pares) convince tutti che non si può cedere: occorre combattere e non negoziare; l’Inghilterra sarà altrimenti ridotta alla condizione di stato-schiavo, con un governo fantoccio filo-nazista. Churchill sa che la sua alternativa a una pace umiliante è il rischio di una strage di innocenti: e infatti in un anno la Gran Bretagna conterà 30mila morti. Eppure tiene duro. E sappiamo come finirà la Guerra, alcuni anni dopo.

La storia non si fa con i “se” e i “ma”, eppure vale la pena di esercitarci per un attimo sullo scenario di un eventuale cedimento, qualora Churchill non avesse imposto la sua linea in quel maggio del 1940. Forse Hitler, avendo mano libera in tutta Europa, avrebbe potuto anticipare l’attacco alla Russia, con più chances di essere vincente. Per altro verso, l’anticipazione dei tempi avrebbe forse trovato gli americani ancora fermi su posizioni di isolazionismo e non interventismo. Naturalmente, è difficile seguire la catena dei “se”: ma non è fuori luogo dire che, senza l’ostacolo Churchill, i nazisti avrebbero avuto una enorme opportunità di imporsi ovunque e subito.

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Se mi è consentito andare oltre, c’è da meditare su cosa rischi di diventare oggi la politica. Una personalità come quella di Churchill nasce una volta in uno-due secoli: questo è chiaro. Ciò che preoccupa, oggi, è che troppo spesso e quasi ovunque, anche i massimi leader occidentali, al di là della loro personale e più o meno adeguata statura, rischiano di non avere il tempo (specialmente interiore) della riflessione di fondo. E quindi – meno che mai – di non avere il coraggio di scelte radicali, difficilissime, impopolari, controcorrente. Cosa resta, allora? Un flusso mediatico inconsistente che annacqua, confonde, spezzetta, diluisce…Una specie di talent-show, di “X-factor” permanente in cui si vota per chi ti fa simpatia in un momento, per chi ottiene quella sera un tuo “like”. Senza impegno e senza pensiero.

Lo dico con dolore, senza alcun desiderio di scherzare o sdrammatizzare. Se oggi un Gabinetto di guerra fosse riunito da qualche parte (figurarsi: per tre giorni consecutivi…), ogni mezz’ora ci sarebbe un addetto stampa che busserebbe alla porta dicendo: serve una battuta per i tg, più un tweet da lanciare e un post da pubblicare su Facebook



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