Marco Tarchi non ha dubbi: chi parla di destra europea, bara. Le identità nazionali hanno guadagnato un peso crescente, e sono ormai gli imperativi della crisi a dettare le linee d’azione. Per l’ideologo dei Campi Hobbit, inoltre, è finito il tempo della contrapposizione frontale tra i duri-e-puri del neoliberismo e i custodi incorrotti del welfare state. Nella notte del disordine dei sistemi democratici, molte vacche sono diventate nere. Certo, la destra continua a richiamarsi ai suoi valori di sempre, a partire dal primato del mercato e della concorrenza. Ma il campo delle grandi questioni etico-politiche resta disseminato di divergenze e contrasti. Basti pensare ai nodi del federalismo, dell’immigrazione, dei diritti civili, della bioetica.
Che ci sia un’inclinazione critica diffusa tra gli intellettuali di destra, anche tra i meno conformisti come Tarchi, proprio perché ritengono che essa non è più un movimento attivo, volto a cambiare il mondo? Sarebbe una conclusione troppo facile. In Europa una “destra intransigente” nel secolo alle nostre spalle c’è stata. Uno storico di orientamento marxista, Perry Anderson, ha intitolato così un indovinato saggio apparso nel 1992 (ora in Spectrum, Baldini Castoldi, 2008). I suoi padri nobili sono quattro: Michael Oakeshott, Carl Schmitt, Leo Strauss e Friedrich von Hayek.
Dal punto di vista anagrafico, Strauss (1899-1973), Hayek (1899-1991) e Oakeshott (1901-1990) sono quasi perfettamente coetanei. Più anziano di un decennio, Schmitt (1888-1985) fu attivo nello stesso arco di tempo. Benché provenienti da discipline differenti – rispettivamente dalla filosofia, dall’economia, dalla storia, dal diritto – i loro interessi si sono incrociati sotto la spinta del collasso della società europea, sfibrata tra le due guerre mondiali dal tracollo industriale, dalle rivolte operaie e dalla violenta reazione dei ceti medi. Schmitt, originario della Vestfalia, si mette subito in luce durante la Repubblica di Weimar come il più fiero avversario cattolico del socialismo e del liberalismo. Le sue riflessioni sfociano così in quel “decisionismo” su cui sono stati versati fiumi d’inchiostro.
In Inghilterra, negli anni Venti Cambridge era un’oasi accademica riparata. La prima pubblicazione di Oakeshott non per caso è un trattatello sulla religione d’impronta ancora anglicana, volto a dimostrare il carattere sostanzialmente unitario di civiltà e cristianità (Society Pamphlet, 1927). Quando però la sua attenzione si sposta sulla politica, il Leviatano diventa per lui “forse l’unico capolavoro di filosofia politica in lingua inglese” (Hobbes on Civil Association, 1946). Ma non è questo l’unico punto di contatto con il pensiero di Schmitt. Al giurista tedesco lo univa anche l’aperto disprezzo per le teorie democratiche: “[…] M’arrischio a suggerire che l’origine di molti dei principi che appartengono al pensiero conservatore è da rintracciare nella tradizione cattolica”, si affrettava a precisare con un esplicito riferimento alla forma costituzionale dell’Austria di Engelbert Dollfuss e del Portogallo di Antonio Salazar (The Social and Political Doctrines of Contemporary Europe, 1939).
Nel frattempo, Strauss era entrato nel movimento sionista e aveva cominciato ad approfondire prima l’esegesi biblica di Spinoza e poi l’opera di Hobbes. Proprio le ricerche su Hobbes lo mettono in comunicazione con Schmitt, con il quale a Berlino stabilisce una salda amicizia. Trasferitosi a Londra nel 1934, cerca di dimostrare che l’opera di Hobbes tendeva a rimpiazzare il modello classico dell’ordinamento politico, basato sui privilegi aristocratici, con una teoria della sovranità giustificata dalla paura. Nel 1938 ottiene una cattedra all’università di Chicago. Inizia a pubblicare una serie considerevole di lavori, e elabora una teoria politica di cui si avvarrà la scuola più risoluta del conservatorismo americano. I suoi punti nevralgici sono due. Il primo: un ordinamento politico giusto deve fondarsi sulle immutabili esigenze del diritto naturale. Il secondo: l’ordinamento politico migliore è quello che rispecchia le diversità dell’eccellenza umana, e perciò a guidarlo deve essere un’élite di competenti (Liberalismo antico e moderno,1968). Nietzsche diventa così la sua stella polare: per Strauss il solo filosofo che aveva compreso pienamente quanto fosse profonda la crisi della modernità con l’avvento della democrazia di massa.
Dal canto suo, Hayek si era trasferito alla London School of Economics già nel 1931. In Austria aveva avuto una formazione laica, genuinamente liberale, immune da ogni tentazione spiritualistica. Non a caso era stato Ernst Mach a suscitare i suoi primi entusiasmi filosofici. Ma il suo vero mentore era Ludwig von Mises, (nella foto), campione del libero mercato. La situazione dell’Austria lasciava però ben poco spazio al suo liberalismo puro, lacerata com’era da una lotta senza quartiere tra una sinistra socialista e una destra clericale. L’unica soluzione sembrava quella di un governo autoritario. Consigliere di monsignor Seipel, il prelato che guidò il Paese alla fine degli anni Venti, Mises approverà i provvedimenti adottati da Dollfuss per battere il movimento operaio, scaricando la responsabilità della dura repressione del 1934 sulla follia dei socialdemocratici, che contestavano l’alleanza con il regime mussoliniano.
Negli stessi anni, Hayek era entrato in una competizione al calor bianco con Keynes per affermare la supremazia del suo credo economico. Scoppiata la guerra, nel 1944 lancia da Cambridge – dov’era sfollato – un appassionato grido d’allarme contro la logica totalitaria della pianificazione centralizzata (La via della schiavitù). La sua polemica prendeva di mira la sostanziale continuità tra socialismo e nazismo, entrambi perniciosi fenomeni di origine tedesca, e nel contempo segnalava i pericoli per la libertà insiti nel verbo laburista. Scoraggiato dal clima di isolamento in cui si era venuto a trovare dopo il successo dei laburisti di Clement Attlee, nel 1950 decide di partire per Chicago.
Accantonati gli studi economici, si dedica all’elaborazione di una teoria della società e della politica che si sarebbe rivelata come la più ambiziosa tra quelle emerse dai ranghi della destra postbellica. Nella sua riflessione sulle condizioni che assicurano la libertà, Hayek si rifà alla tradizione di matrice empirista – in prevalenza britannica – iniziata da Hume, Smith e Ferguson, che metteva l’accento sul carattere spontaneo del processo di miglioramento istituzionale, paragonabile nel suo funzionamento a quello dell’economia di mercato (La società libera,1960).
Al di là delle loro differenti simpatie politiche e vocazioni teoretiche, tutti e quattro i pensatori della “destra intransigente” erano assillati dai rischi insiti nella democrazia di massa, temuta come l’abisso nel quale sprofonda l’assenza di regole. Ma una cosa è certa: le risorse culturali spese in questa impresa, indipendentemente da come la si voglia valutare, sono state davvero notevoli. La vastità degli interessi di Strauss e la sua statura intellettuale non avevano uguali nella sua generazione. Gli stessi cedimenti di Schmitt al nazismo non ne hanno pregiudicato la straordinaria capacità di fondere ingegno analitico e immaginazione metaforica, a cui si devono illuminanti intuizioni sul sempiterno problema del potere. Hayek ha saputo elaborare una critica dello Stato assistenziale la cui portata e la cui forza rimangono ancora attuali. In questa galleria di personalità, Oakeshott si distingue anche per le sue qualità letterarie. La sua prosa ha un tocco di edoardiana opulenza: “Nell’attività politica, dunque, gli uomini solcano un mare sconfinato e senza fondo: non ci sono porti dove ripararsi né superfici dove gettare l’ancora, e tanto meno un luogo di partenza o una destinazione prefissata […]” (Rationalism in Politics, 1962).
Se paragoniamo la fortuna di questi pensatori a quella di alcuni intellettuali democratici del Novecento, riscontriamo una singolare contraddizione. Il solo John Rawls in un ventennio aveva accumulato una bibliografia superiore a quella di tutti i nostri messi insieme. Tuttavia, il suo concetto di “giustizia come equità” ha esercitato una scarsa influenza sulle strategie dei partiti e sulle politiche governative. Uno dei motivi va forse cercato in un’idea di giustizia irenica quanto distante da una realtà segnata da incessanti e tumultuose trasformazioni. Al contrario, la voce dei pensatori di cui abbiamo parlato era almeno ascoltata nelle cancellerie. Schmitt fu consigliere di Franz von Papen e ricevette Kurt Kiesinger; gli straussiani affollarono il Consiglio per la sicurezza nazionale durante la presidenza di Ronald Reagan; Hayek fu incensato da Margaret Tatcher alla Camera dei Comuni; Oakeshott entrò nel breviario ufficiale del premier John Major. Una destra non solo intransigente, insomma, ma anche autorevole.