Chi sono i firmatari della Correctio filialis indirizzata a Papa Francesco? Non “eretici”, “lefevriani” e nemmeno “tradizionalisti”, come vengono definiti, ma cattolici, apostolici romani, mossi solo – come scrivono nel loro documento – “dalla fedeltà a Nostro Signore Gesù Cristo, dall’amore alla Chiesa e al Papato”, e dalla devozione filiale verso Papa Francesco, ma costretti a rivolgere al Santo Padre, “una correzione a causa della propagazione di alcune eresie sviluppatesi per mezzo dell’esortazione apostolica Amoris laetitia e mediante altre Sue parole, atti e omissioni”.
Questo gesto non è sembrato scandaloso né al cardinale Gerhard Müller, ex Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, che ha proposto un dibattito teologico tra alcuni cardinali, nominati dal Papa, e gli autori dei Dubia e della Correctio, né al cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato di Papa Francesco, che ha dichiarato: “Le persone che non sono d’accordo esprimono il loro dissenso ma su queste cose si deve ragionare, cercare di capirsi”. Malgrado il loro attaccamento al papato i firmatari del documento, il cui numero si è quadruplicato in questi giorni, non hanno rinunciato all’uso della ragione, perché la fede cattolica ha un fondamento razionale.
L’accordo tra fede e ragione è stato dichiarato verità dogmatica dal Concilio Vaticano I. Oggi invece, come osserva lo scrittore americano Robert Royal, su The Catholic Thing, stiamo assistendo al tentativo di ricercare una fede svincolata dalla ragione, o addirittura contraria ad essa. Ma, scrive Royal, “è’ una vecchia verità filosofica, che una volta abbandonato il principio di non-contraddizione, tutto è possibile”.
L’esistenza di una contraddizione, sul piano logico, tra alcuni passaggi dell’Amoris laetitia e il Magistero immutabile della Chiesa è stata rilevata da molti studiosi, tra i quali il professor Josef Seifert, uno dei più noti filosofi cattolici del nostro tempo. La legge naturale e la morale cattolica sono, per definizione, assolute e universali e non ammettono eccezioni. Chi convive more uxorio con un uomo o con una donna a cui non sia legato dal sacramento del matrimonio si trova in un oggettiva situazione di peccato grave. Né l’intenzione né le circostanze possono rendere buono un atto che in sé è intrinsecamente cattivo. Se si ammette una possibilità di eccezioni tutta la morale crolla. “Se solo un caso di atto intrinsecamente immorale può essere permesso e persino voluto da Dio,- scrive Seifert – ciò non si deve applicare a tutti gli atti considerati ‘intrinsecamente errati’? Se è vero che Dio può desiderare che una coppia adultera viva in adulterio, allora non dovrà essere riformulato anche il comandamento ‘Non commettere adulterio!’: ‘Se nella tua situazione l’adulterio non è il male minore, non commetterlo! Se lo è, continua a viverlo!’? Non dovranno pertanto cadere anche gli altri 9 comandamenti, Humanae Vitae, Evangelium Vitae e tutti i documenti passati, presenti o futuri della Chiesa, i dogmi o i concili, che insegnano l’esistenza di atti intrinsecamente errati?”
Come è possibile che queste contraddizioni possano insinuarsi all’interno dell’insegnamento della Chiesa e, soprattutto, che possano essere supinamente accettate da molti cattolici in nome di una acritica e cieca obbedienza a Papa Francesco? L’articolo del professor Benedetto Ippolito su Formiche.net del 26 settembre, è interessante a questo proposito. Ippolito è un apprezzato studioso di Giovanni Duns Scoto (1265-1308), ma nell’articolo in questione mostra di seguire le idee di un cattivo discepolo di Scoto, Guglielmo di Ockham (1258-1347), capostipite del cosiddetto “nominalismo”.
I nominalisti hanno una concezione di Dio diversa da quella di San Tommaso. Mentre quest’ultimo afferma che Dio non può fare nulla di contraddittorio, Ockham ritiene che Dio, essendo volontà assoluta, può volere e fare qualsiasi cosa anche, paradossalmente, il male, perché male e bene non esistono in sé stessi, ma sono resi tali da Dio. Per San Tommaso una cosa è comandata o proibita in quanto è ontologicamente buona o cattiva (imperatum quia bonum; prohibitum quia malum) per i seguaci di Ockham, vale l’opposto: una cosa è buona o cattiva, in quanto Dio l’abbia comandata o proibita (bonum quia imperatum; malum quia prohibitum). I nominalisti negano che le azioni siano buone o cattive in sé per loro natura propria; l’adulterio, l’assassinio, il furto, sono cattivi solamente perché Dio li ha proibiti. La moralità consiste unicamente nell’obbedienza al comando di Dio, la volontà del quale è assolutamente libera ed arbitraria. Una volta ammesso questo principio volontarista non solo la morale diviene relativa, ma il rappresentante di Dio in terra, il Vicario di Cristo, potrà a sua volta esercitare la sua suprema autorità in maniera illimitata e arbitraria e i fedeli non potranno che prestargli una incondizionata obbedienza.
Ockham non fu conseguente con le proprie idee, perché si ribellò al Papa, ma il volontarismo dei nominalisti è alla base della attuale “papolatria”, secondo cui, criticare il Papa è sempre sbagliato perché, in ultima analisi, come afferma il prof. Ippolito, il Papa ha sempre ragione, “essendo Lui stesso a garantire l’ortodossia esterna della cristianità.” Papa Francesco, secondo Ippolito, “non soltanto non cambia nulla della dottrina, ma applica la carità e la misericordia per comprendere e aiutare chi è in difficoltà con il matrimonio e magari si trova in una condizione di sofferenza per il proprio stato irregolare.” Ma in che modo applica la dottrina? Autorizzando nella pratica ciò che la dottrina vieta. Ciò comporta una scissione tra la dottrina e la pastorale, con la conseguente trasformazione della nuova pastorale in una nuova dottrina, opposta alla precedente. Ma il Papa, secondo i neo-nominalisti, non può essere criticato e qualsiasi cosa dica o faccia deve essere accettata, come se egli fosse un secondo Dio in terra, incapace di peccare o di errare. Ben diverso però è l’insegnamento della Chiesa.
La Commissione Teologica vaticana ha recentemente affermato che “avvertiti dal proprio sensus fidei, i singoli credenti possono giungere a rifiutare l’assenso a un insegnamento dei propri legittimi pastori se non riconoscono in tale insegnamento la voce di Cristo, il Buon Pastore” (Il sensus fidei nella vita della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2014, n. 63). Infatti, come ricorda l’apostolo Giovanni, “le pecore lo seguono (il Buon Pastore) perché conoscono la sua voce. un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei” (Gv, 10, 4-5). Il sensus fidei può spingere i fedeli, in alcuni casi, a rifiutare il loro assenso verso alcuni documenti ecclesiastici e a porsi, di fronte alle supreme autorità, in una situazione di resistenza o di apparente disobbedienza. La disobbedienza è solo apparente perché in questi casi di legittima resistenza vale il principio evangelico per cui bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (Atti, 5, 29).
Per San Tommaso d’Aquino in casi estremi è lecito ed anzi doveroso resistere pubblicamente anche ad una decisione papale, come San Paolo ha resistito in faccia a san Pietro. “Così San Paolo, che era soggetto a San Pietro, lo riprese pubblicamente, in ragione di un pericolo imminente di scandalo in materia di fede. E, come dice il commento di sant’Agostino, “lo stesso san Pietro diede l’esempio a coloro che governano, affinché essi, allontanandosi qualche volta dalla buona strada, non rifiutino come indebita una correzione venuta anche dai loro soggetti (Gal. 2, 14)” (Summa Theologiae, II-III, q. 33, a. 4, ad 2.).
Cos’altro è la Correctio filialis, se non un atto di doveroso richiamo nei confronti di chi sta portando la Chiesa universale nel disorientamento e nel caos?