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Perché continuo a essere europeista

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“Il presidente francese Emmanuel Macron ha tenuto ieri alla Sorbona di Parigi un atteso discorso sull’Europa. Si è trattato di un discorso programmatico sul futuro dell’Europa, ma anche di una lezione politica molto importante per tutte le classi dirigenti europee – incluse quelle italiane, che ne hanno molto bisogno. Tra qualche decennio potrebbe essere ricordato come un passo fondamentale nell’integrazione europea, alla stregua della Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950 che diede avvio al processo di integrazione”. Così ha scritto nella sua rubrica sull’Espresso Roberto Castaldi un giovane professore molto impegnato sul fronte europeista.

Sono d’accordo con questa valutazione e trovo sgradevole l’antipatia che deborda dai quotidiani italiani nei confronti del presidente francese, come se fosse una sorta di Luigi Di Maio d’Oltralpe. Ciò premesso mi auguro – ma purtroppo non ne sono sicuro – che le grandi questioni dell’Europa e dell’euro siano al centro della prossima competizione elettorale, anche se ho l’impressione che proprio le forze sovranpopuliste – scottate dalla loro speranze deluse in giro per il Continente – abbiano interesse a metterle in sordina. Ma questo è anche un segno dei tempi; un anno fa l’offensiva dei nostri avversari (sarebbe meglio usare il termine “nemici”) sembrava inarrestabile, invincibile.

Il dibattito politico si consumava nel falò dei luoghi comuni contro l’Unione europea e la moneta unica che venivano indicate come la principale causa dei nostri guai, mentre le politiche di austerità (che poi erano corrette politiche di bilancio rispettose degli equilibri finanziari) erano descritte come una mania della perfida Germania e di Angela Merkel, responsabili di effetti economici e sociali devastanti; salvo poi dover riconoscere oggi che quelle politiche hanno contribuito alla ripresa dell’economia ora in atto in tutta l’Eurozona, Italia compresa.

La peste anti-sistema aveva contagiato i programmi e la linea di condotta di altre forze politiche nella speranza di raccogliere le briciole del consenso attribuito agli avversari. Come sempre i media erano saliti sul carro dei presunti vincitori.

Noi europeisti abbiamo resistito, anche quando tutto sembrava perduto. Proprio perché il fronte europeista deve sentirsi unito al di là dei confini nazionali – come lo fu, tra le due guerre mondiali, quello antifascista – ci sentiamo partecipi delle vittorie elettorali in Olanda, in Francia, in Spagna (lì, contro il populismo sinistrorso). E anche di quella travagliata in Germania.

Purtroppo adesso il Governo inglese e l’Amministrazione americana stanno dalla parte dei nostri nemici. Ma l’aria è cambiata, al punto che sono gli avversari sulla difensiva, mentre cresce la consapevolezza che è inutile e controproducente inseguire i populismi sul loro terreno, perché così si porta acqua al loro mulino.

L’Unione europea non è certo il migliore dei mondi possibili, ma è come la democrazia: il peggiore dei sistemi politici fatta eccezione per tutti gli altri. Ed è, parafrasando Hegel, “razionale” in quanto “reale”. La fase storica che stiamo vivendo impone delle scelte nette: poche idee forti, che orientino le politiche operative con coerenza e rigore. Si tratta di scegliere tra globalizzazione o protezionismo; integrazione europea o “sovranismo”; l’euro o il ritorno alle monete nazionali (compresa la pagliacciata della doppia moneta); accoglienza e integrazione nella sicurezza o xenofobia; difesa della democrazia rappresentativa o l’oppio dell’antipolitica.

Diceva Giacomo Brodolini che quanti scelgono gli amici, scelgono anche i nemici. L’espressione può essere rovesciata. Oggi, in Europa, i nostri “nemici” sono i saltimbanchi riuniti a Coblenza, i guru che ipnotizzano le folle, al pari dei movimenti del sinistrismo radicale, schierati contro il rigore, la “casta” e ciò che loro chiamano establishment. Il confronto riguarda la prospettiva dei futuri ordinamenti, dell’economia, del vivere civile nel Vecchio Continente.

Dobbiamo misurarci – lo sappiamo – non con incidenti della storia, ma con processi politici e sociali che non sono nati casualmente, tanto che si sono sprecate milioni di parole e di pagine per spiegarne le origini e le ragioni. E, al dunque, per giustificarne il ruolo e la presenza. Noi però non siamo degli analisti, ma dei militanti. Non ci interessa comprendere ed interpretare le cause del virus populista. Prima dobbiamo stroncare il diffondersi dell’epidemia.



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