Che di Giovanni Amendola i nostri giovani sappiano poco o nulla, lo sospetto da quando – discutendo con alcuni studenti sulla storia del Pci – mi sono accorto che veniva confuso col figlio Giorgio, “il dirigente comunista maestro di Giorgio Napolitano“. Asineria a parte, è anche vero che l’ex inquilino del Colle non ha mai nascosto la sua ammirazione per un “campione intransigente” del liberalismo democratico. Così lo defisce nella presentazione di un bel libro di Alfredo Capone (Giovanni Amendola, Salerno Editrice, 2013). Una figura con la quale “sentono di non aver fatto abbastanza i conti – sottolinea Napolitano – persone rivoltesi come me da giovanissime […] alla politica in quanto scelta di vita”.
Nato a Napoli il 15 aprile 1882, dopo il trasferimento della famiglia a Roma il quindicenne Giovanni Battista Amendola si iscrive alla gioventù socialista. Nella borghesia romana dell’epoca andavano di moda l’induismo e l’esoterismo. Le lezioni del bramino Roy Chatterji, organizzate dalla Loggia della Società teosofica, erano affollatissime. Sul finire dell’Ottocento la Società poteva contare adepti quasi in ogni regione della penisola. Del resto, il rapido successo dell’occultismo legato alla massoneria aveva alle spalle, in particolare nel Mezzogiorno, la lunga tradizione carbonara e anticlericale della sinistra risorgimentale.
Divenuto membro della Loggia capitolina nel 1900, Giovanni inizia l’apprendimento del catechismo teosofico sotto la guida di Isabel Cooper Oakley. L’affiliazione gli spalanca le porte di un ambiente cosmopolita, popolato da munifiche nobildonne europee e americane. Impara così l’inglese e il francese. Studia il sanscrito, legge i testi fondamentali della letteratura orientalistica, Si accosta al buddismo. Tuttavia, già nel 1902 comincia a prendere le distanze dal “delirante tecnicismo pseudoscientifico” della Società, influenzato anche da una ragazza russa conosciuta due anni prima: Eva Oscarovna Kühn.
Tolstoiana e vegetariana, studiosa di Henry David Thoreau e di Arthur Schopenhauer, Eva era stata introdotta nella Loggia romana dalla connazionale Sasa Profan. Lì aveva incontrato Giovanni, subito attratto dalla sua femminilità e dalla sua vasta cultura, in cui però non c’era posto per la detestata teosofia (un mix di evoluzionismo, umanitarismo e, sul piano dottrinale, di legge del karma e monismo). Dopo un rapporto assai tormentato, si sposano nel 1907 con rito valdese. Dalla loro unione nasceranno quattro figli: Giorgio (1907), Adelaide (1910), Antonio (1916) e Pietro (1918). La “bohème di casa Amendola” -la definizione è di Giorgio- sarà segnata da ristrettezze economiche, da continui cambi di abitazione e dal carattere estroso e ribelle di Eva. Un’esistenza burrascosa, la sua, tra acute crisi nervose e ardenti relazioni sentimentali (famose quelle con Giovanni Boine e Filippo Tommaso Marinetti), ma mai clandestine, anche a rischio di una rottura del matrimonio.
Ripudiata la teosofia, il fervore intellettuale di Giovanni si dispiega nei campi più disparati. Affascinato dalla poetica dei simbolisti nordici e dalla drammaturgia di Henrik Ibsen, nel 1906 si reca a Mosca, dove sulla rivista Viessy pubblica un articolo in cui stronca l’estetismo dannunziano. Continua a collaborare con il Leonardo, anche se poi contesterà il misticismo irrazionalista di Giuseppe Prezzolini. Nel marzo 1906 tiene una conferenza su Jean Jaurès a Palazzo Giustiniani, che testimonia la sua adesione alla massoneria (l’abbandonerà nel 1908). Pochi mesi prima aveva conosciuto Benedetto Croce, del cui discorso filosofico apprezzava l’impegno civile ed etico, ma non la svalutazione della scienza e della religione. Sarà proprio la condanna crociana del modernismo a scavare un fossato tra i due. Secondo il filosofo abruzzese, esso altro non era che un “fanciullo fastidioso” che si interponeva fra un adulto, l’idealismo, e un vecchio ancora robusto, il cattolicesimo. Per il giovane Amendola, invece, rappresentava “la democrazia religiosa. […] La formula riassuntiva Dio e popolo [di Mazzini] contiene in sostanza la dottrina cattolica del modernismo”.
Nell’autunno 1911 Amendola ha un ruolo di primo piano nell’orientare La Voce prezzoliniana (Gaetano Salvemini dissenziente) a favore della spedizione in Libia voluta da Giovanni Giolitti. Nel luglio 1912 -auspice Mario Missiroli- entra nella redazione politica del Resto del Carlino. Scrive articoli sul “parossismo di italianità” di Vincenzo Gioberti e si contrappone vivacemente al meridionalismo conservatore di Antonio Salandra. Alla vigilia delle elezioni del 27 ottobre 1913 (le prime a suffragio pressoché universale), dominate dal “patto Gentiloni”, auspica una “concentrazione di centro”, sollecita i radicali a schierarsi con Giolitti e a staccarsi dai socialisti. Visti i risultati delle urne, si apre all’ingresso dei cattolici nella vita nazionale, ma è contrario alla costituzione di un partito confessionale. Propugna un liberalismo non ateo, ma che “si ricongiunga strettamente all’anima politica del Risorgimento”.
Nel giugno 1914 Luigi Albertini lo assume all’ufficio romano del Corriere della Sera, perché ne stimava la statura morale e intellettuale, e perché era in sintonia col suo progetto di costruire uno schieramento riformatore alternativo alle tendenze nazionaliste della destra liberale. Inoltre, per entrambi l’intervento italiano al fianco dell’Intesa era una “scelta di civiltà”, coerente con le ragioni del liberalismo europeo. Ma l’interventismo amendoliano era distante dalle interpretazioni del conflitto con la Triplice come quarta guerra d’indipendenza. Lo considerava piuttosto come un passaggio storico inevitabile, che però non sarebbe riuscito a sollevare il Paese dalla sua mediocrità.
Tenente di artiglieria sul fronte dell’Isonzo, è tra i primi a denunciare sia le responsabilità del Comando supremo nell’andamento disastroso delle operazioni belliche, sia la ferocia dei metodi usati per mantenere la disciplina tra le truppe. Alla vigilia di Caporetto, rientrato dalla trincea goriziana dopo essersi meritata una medaglia di bronzo al valor militare, nel gennaio 1918 scrive ad Albertini una lettera che era uno spietato atto di accusa contro il generale Luigi Cadorna, nella cui disfatta vedeva rispecchiata la bancarotta delle classi dirigenti italiane. Alle elezioni del novembre 1919 si candida in un collegio del salernitano dove nella lista di Francesco Saverio Nitti, che puntava a includere il Mezzogiorno in una strategia industrialista e a unire socialisti riformisti e popolari in un’alleanza di centro-sinistra; ma non ne condivideva l’adesione alla riforma del voto in senso proporzionalistico. In essa, infatti, scorgeva “un vero e proprio mutamento di regime” che minava le basi dello Stato liberale, poiché avrebbe creato partiti artificiosi e accentuato le fratture politiche.
Il 16 giugno 1920 Giolitti forma il suo quinto governo. A settembre gli operai occupano le fabbriche con le armi. Sul Corriere del 9 novembre, il commento di Amendola è cupo: “All’occupazione delle fabbriche e al controllo sindacale, conquistato per vie extralegali, è seguito immediatamente un preoccupante collasso morale della borghesia produttrice; e al dilagare dell’agitazione massimalista [ …] è seguita nel paese una potente e profonda reazione in difesa dell’ordine sociale e statale vigente, attraverso la quale si manifesta, con disperata energia, l’istinto di conservazione nazionale”.
Nel 1922 Amendola progetta un nuovo quotidiano, il Mondo; un nuovo partito, il Partito democratico italiano; un nuovo dicastero di unità democratica. Poi, pur mostrandosi tiepido nei confronti del Gabinetto del giolittiano Luigi Facta, accetta di entrarvi come ministro delle Colonie. Dopo la Marcia su Roma (28 ottobre) e l’insediamento del governo Mussolini (16 novembre), mette a punto la sua linea di opposizione costituzionale. Nei primi mesi del 1923 propone un’alleanza con i socialisti, reduci dalla scissione dell’ala riformista, e con i popolari di Luigi Sturzo. Nel mirino della sua critica, però, adesso c’è l’infatuazione collettiva per il sistema maggioritario (la legge Acerbo era già in gestazione). Il 12 luglio interviene alla Camera, riaffermando la propria fede nel pluralismo e nell’apertura agli strati popolari, vocazione storica della democrazia liberale.
Commentando l’assassinio di Giacomo Matteotti, il 26 giugno 1924 Amendola scrive su il Mondo: “Quanto alle Opposizioni, è chiaro che in siffatte perduranti condizioni, esse non hanno nulla da fare in un Parlamento che manca della sua fondamentale ragione di vita. […] quando il Parlamento ha fuori di sé la milizia e l’illegalismo, esso è soltanto una burla”. L’ipotesi di secessione parlamentare, passata alla storia col nome di Aventino, è già in campo. Il 3 gennaio 1925, il “colpo di Stato” di Mussolini sancisce il suo fallimento. Da Piero Gobetti a Luigi Salvatorelli, comincia una gara per addebitare ad Amendola l’errore di aver condotto una battaglia moralmente rigorosa, ma priva di qualunque efficacia politica.
Calato il sipario sull’Aventino, nella prefazione a Per una nuova democrazia (1925) Amendola mette sul banco degli imputati il dogma dello Stato-Leviatano, nato col giacobinismo e incarnatosi nel bolscevismo e nel fascismo. Il 20 luglio 1925 viene aggredito da una quindicina di sicari armati di bastone all’Hotel Pace di Montecatini. Per curarsi, alla fine dell’estate si reca a Parigi. Rientrato a novembre in Italia, agli inizi del 1926 viene operato ai polmoni. I chirurghi trovano un ematoma causato “dal violento traumatismo prodotto sulla regione corrispondente all’emitorace sinistro nel luglio 1925”. Amendola viene allora trasferito a Cannes, nella clinica Le Cassy Fleur. Il figlio Giorgio così ricorda la sua fine, sopraggiunta all’alba del 7 aprile: “Nelle ultime ore, partiti tutti gli amici, eravamo rimasti nella stanza la Pavlova, Ruini e io. Il rantolo diventava sempre più straziante, poi egli si sollevò, si guardò attorno, levò una mano per farmi una carezza, ricadde, e fu tutto”.