Martedi prossimo, salvo ulteriori colpi di scena, dovrebbe partire la trattativa fra i rappresentanti della cordata AmInvestco Italy e i Sindacati sul futuro del gruppo Ilva. Sarebbe opportuno, a nostro sommesso avviso, che a quel tavolo non partecipassero i Commissari che rappresentano l’Amministrazione straordinaria e assolvono come tali funzioni pubblicistiche e che, pertanto, dovrebbero conservare un profilo di terzietà. Già da molti osservatori è stata definita imprudente la loro firma sulla lettera con la quale AmInvestco Italy aveva posto sul tavolo del confronto le sue condizioni: lettera, com’è noto, definita irricevibile nei suoi contenuti dal ministro Carlo Calenda (in foto) che il 9 ottobre scorso aveva subito disattivato il tavolo, dopo che nella mattinata di quello stesso giorno le fortissime risposte operaie nei siti di Taranto, Genova e Novi ligure avevano fatto comprendere (sperabilmente a tutti) che la trattativa sarebbe stata (e sarà) durissima nel merito tecnico e il cui esito, se non si modificheranno profondamente piano industriale e modalità di assunzione dei lavoratori, potrebbe anche essere negativo, inficiando così – come dovrebbero ricordarsi tutti – la vendita dell’Ilva alla cordata prescelta sulla base della sua offerta.
Ora se i suoi rappresentanti hanno cambiato i contenuti della loro proposta, o se essa risulti ‘congelata’ si vedrà, ma intanto sono sopravvenuti fatti nuovi: la Regione ha chiesto (restando sinora inascoltata) di essere ammessa al tavolo della trattativa, peraltro con la contrarietà dei Sindacati; il Comune di Taranto ha dichiarato di voler impugnare dinanzi al Tar il Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri recante disposizioni in materia di attuazione degli interventi di bonifica dello stabilimento di Taranto; una giornata di vento paurosamente devastante ha sollevato polveri dai parchi minerali sul quartiere Tamburi e sulla città, spingendo il primo cittadino a disporvi la chiusura delle scuole per tutta la durata del fenomeno; il ministro Calenda ha telefonato al Sindaco Melucci per invitarlo a Roma a discutere di questioni sulla vicenda Ilva che quest’ultimo vuole portare all’attenzione del governo, mentre il presidente della Confindustria locale Cesareo ha dichiarato alla stampa che la sua associazione è impegnata con le imprese dell’indotto siderurgico a definire percorsi di diversificazione delle loro attività, sia all’interno del Siderurgico e sia in altri settori comunque contigui alla meccanica e all’impiantistica.
Allora, con il solo intento di offrire un contributo costruttivo ai vari soggetti in causa, ci proveremo a focalizzare le varie questioni, avanzando proposte. Procedo per punti.
1) la richiesta della Regione di partecipare alla trattativa fra le parti, se da un lato incontra difficoltà di accoglimento per i caratteri della stessa procedura di vendita – lo ha ricordato il ministro De Vincenti – dall’altro però evidenzia un problema politico, sociale ed economico di assoluta rilevanza, costituito dal doversi far carico anche le Istituzioni locali, per quanto di rispettiva competenza, di quelli che potrebbero essere alcuni effetti sul breve, medio e lungo periodo di una trattativa che alla fine andasse in porto fra Impresa e sindacati. A ciò si aggiunga l’esigenza – resa ancor più stringente dopo il fortissimo vento dei giorni scorsi – di intervenire con assoluta tempestività nell’abbattere drasticamente e il più rapidamente possibile l’inquinamento generato dal sito, avviando subito almeno la copertura del parco minerali, perché il provvedimento assunto dal Sindaco di chiusura delle scuole al quartiere Tamburi nella sua eccezionalità evidenzia l’insostenibilità di una situazione, su cui potrebbero registrarsi anche interventi della Magistratura.Allora, la copertura del parco minerali – prevista con una spesa di 400 milioni e a suo tempo assegnata all’impresa Cimolai (è ancora così ?) assume priorità assoluta, con evidente incidenza sulla tempistica degli interventi previsti nel DPCM del 29 settembre che, a questo punto, potrebbe essere rimodulato nelle sue scansioni temporali con altro provvedimento, disponendosi la chiusura di tutti (nessuno escluso) gli interventi ambientali previsti per la cordata AmInvestco Italy non entro il remoto 23 agosto del 2023, ma al massimo entro il 31 dicembre del 2019. Due anni sarebbero sufficienti – lo dicono tutti i tecnici più qualificati in materia di impiantistica siderurgica – per bonificare il sito ionico, lavorando se del caso h24 per sette giorni alla settimana. Allora, il vero problema da affrontare è la quantità di risorse necessarie per tali operazioni di bonifica e i tempi della loro disponibilità in termini di cash da parte di chi è chiamato a metterle in campo. L’ipotesi ventilata sulla stampa (Corriere della Sera) di un possibile invito da parte del governo alla Cassa Depositi e Prestiti a partecipare alla cordata è sicuramente interessante, ma si tratterebbe di comprendere se essa rileverebbe quote già versate, o se invece parteciperebbe (come sarebbe preferibile) ad un aumento di capitale sociale per apportare risorse fresche per interventi ambientali ormai indifferibili. Inoltre, non si potrebbe aprire un tavolo parallelo fra governo ed Enti locali per verificare le ricadute sul territorio di quanto si stabilisse nella trattativa fra azienda e Sindacati ? O non potrebbe essere lo stesso tavolo già istituito da tempo per seguire l’attuazione del Contratto istituzionale di sviluppo fra governo e Istituzioni locali a prendere in carico per risolverle le questioni che sorgessero per il territorio da un accordo fra la cordata e le Organizzazioni sindacali ?
2) Il confronto sul piano industriale – al momento solo in parte noto, soprattutto per le osservazioni critiche che ad esso sono state mosse da autorevoli docenti di Siderurgia del Politecnico di Milano e condivise (come pare) da dirigenti in servizio o in pensione dello stabilimento ionico – dovrebbe far comprendere a tutti che non è produttivamente utile e socialmente gestibile un assetto di marcia che per i prossimi due anni attestasse l’output di Taranto a 6 milioni di tonnellate, generando così 3.311 esuberi, solo nel sito locale. Ma se proprio si volesse mantenere il livello di sei milioni di tonnellate di acciaio liquido per i due anni necessari al completamento delle bonifiche integrali, bisognerebbe assicurare da subito – avviate immediatamente alcune manutenzioni ordinarie e straordinarie – la lavorazione di almeno 2 o 2,5 milioni di tonnellate di bramme provenienti da altri siti di cui in realtà l’impianto di Taranto non avrebbe bisogno essendo completo nelle sue produzioni dalla ghisa ai coils, dai tubi alle lamiere. Ma bisogna mantenere i livelli occupazionali, non solo per un fin troppo evidente principio di solidarietà sociale, ma soprattutto perché – una volta bonificata la grande fabbrica – essa dovrebbe essere portata al massimo della sua capacità produttiva che è di 10,5 milioni di tonnellate annue, che non è stata toccata neppure negli anni della gestione privata, quando si è attestata, ma solo in qualche anno, intorno ai 9 milioni di tons. Il mercato nazionale assorbirebbe il prodotto di Taranto, ma una valvola significativa di sbocco sarebbe rappresentata dall’export, ricordando che quello siderurgico ha rappresentato sempre una voce di importo elevato dalla provincia, anche negli ultimi anni pur essendo in flessione in valore.
3) circa le modalità di assunzione degli addetti ogni ipotesi di drastici tagli di salari e nuove condizioni di inquadramento, per quanto ipotizzate, ‘non passano’, ‘non sfondano’ fra i dipendenti – se ne facciano una ragione tutti i protagonisti della trattativa – perché se anche mai i dirigenti sindacali fossero costretti ad accettarli, sarebbe poi la base nelle assemblee a respingere un eventuale accordo al ribasso. E innescare una situazione endemica di ribellismo nell’enorme stabilimento, rischiando così di renderlo ingovernabile, è del tutto evidente che non converrebbe a chicchessia.
4) il futuro dell’indotto – che include a Taranto non meno di 120 aziende con circa 3.000 addetti che costituiscono con le imprese del polo petrolchimico di Priolo la più elevata concentrazione in Italia di attività di subfornitura a ridosso di impianti di processo – deve prevedere una significativa diversificazione di attività non solo nel Siderurgico, ma anche in altri settori, in Italia e all’estero. Si stanno studiando approfonditamente in seno alla Confindustria tarantina alcune ipotesi settoriali e merceologiche che, una volta ben definite, dovranno essere presentate a tutti gli operatori, al governo, alla Regione, alle banche e anche alle Università perché tutti partecipino ad un percorso di diversificazione che sarebbe per certi aspetti ‘epocale’ e che, proprio per questo, avrebbe bisogno di risorse proprie da parte delle imprese, integrate però da apporti pubblici.
5) la decarbonizzazione della produzione, auspicata anche dalla Regione, è tecnicamente praticabile con un significativo abbattimento delle emissioni nocive con l’impiego del preridotto di ferro anche negli attuali altoforni come ha inoppugnabilmente dimostrato il Prof. Mapelli del Politecnico di Milano nel materiale illustrato a suo tempo in un’udienza in Parlamento, e pertanto depositato agli atti. Bisognerà verificare il prezzo del gas per produrre quel materiale a costi competitivi, ma esso si potrebbe anche importare, sempre in un quadro di convenienze, da Paesi che lo producono.
6) Non ci si dimentichi infine che anche le movimentazioni dell’Ilva incidono in termini oltremodo significativi su quelle dello scalo portuale che nei primi sei mesi del 2017 ha registrato una flessione in termini di tonnellate totali in entrate e in uscita. Ora è chiaro che il porto di Taranto deve puntare a diversificare i suoi traffici – come peraltro è attivamente impegnato a fare il vertice dell’Autorità di sistema portuale del Mar Ionio – ma è altrettanto evidente che un drastica riduzione di movimentazioni del Siderurgico ridurrebbe le entrate dello scalo con effetti intuibili sui suoi possibili interventi futuri. E sull’area portuale insistono anche i 500 addetti della TCT che attendono ricollocazione, non dimentichiamolo.
Ora alla luce di quanto siamo venuti sia pure schematicamente scrivendo in precedenza, è intuibile che se si realizzassero nei tempi da noi ipotizzati tutti gli interventi e le azioni per rilanciare il gruppo Ilva e soprattutto lo stabilimento tarantino sarebbero notevolmente mutate le condizioni previste nel bando di vendita e recepite nell’offerta della cordata al momento provvisoriamente aggiudicataria. Ne siamo pienamente consapevoli.
Ma a questo punto dovrebbe intervenire, a nostro avviso, una decisione ben ponderata da parte del Governo – su cui sarebbe bene che tutti i maggiori partiti si esprimessero, anche in vista dell’ormai prossima campagna elettorale – volta a valutare sino in fondo se far scendere in campo, accanto alla cordata AmInvestco Italy, uno o più soggetti privati (Arvedi, con il già presente gruppo Marcegaglia?) e pubblici (Fincantieri? Cassa Depositi e Prestiti?), che supportino Arcelor – naturalmente in un quadro di convenienze condivise – in una operazione che dovrebbe conservare integro sotto il profilo produttivo e occupazionale il Gruppo Ilva che è stato, e dovrebbe continuare ad essere, con i suoi siti e i suoi magnifici addetti il perno di un settore strategico dell’industria nazionale in un Paese che è, e deve restare, la seconda potenza manifatturiera d’Europa.