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Il rapporto tra Tillerson e Trump è alla frutta?

Il dossier iraniano – quello del che fare con l’accordo nucleare, se tenerlo vivo o sopprimerlo – è soltanto uno degli argomenti che divide la Casa Bianca, in carne il presidente Donald Trump, e il suo capo della diplomazia, Rex Tillerson. Il dipartimento di Stato ha già certificato per due volte (ad aprile e a luglio) che dopo tutto gli ayatollah mantengono i patti e non stanno violando le condizioni imposte dal meccanismo internazionale creato ad uopo (il “5+1”) che ha siglato nel luglio del 2015 il Nuke Deal con l’Iran; ma Trump sta cercando tutti i modi per uscire da quell’intesa e tenere in piedi almeno nella forma una delle più urlate promesse elettorali (che diceva: “È il peggior accordo di sempre”, non preoccupatevi, votatemi e vi tirerò fuori per la vostra sicurezza). La storia raccontata dalle tante fonti dei giornalisti americani vuole che a luglio, data dell’ultima certificazione, la riunione sul che fare alla Casa Bianca si sia chiusa in una semi-rissa, con Trump che alla fine ha ceduto alle colombe interne, ma che lo ha fatto senza un briciolo di convinzione: pochi giorni dopo, in un’importante intervista al Wall Street Journal, diceva che fosse stato solo per lui gli Stati Uniti sarebbero fuori dall’accordo fin dall’inizio della sua presidenza.

SMENTITE, BORDATE…

Il rapporto tra Trump e Tillerson è andato via via sgretolandosi in soli otto mesi, a colpi di incomprensioni e posizioni marcatamente diverse. Prendete come altro esempio un altro dossier caldo, quello nordcoreano: il segretario di Stato è da sempre tra coloro che indicano la via negoziale come unica risoluzione – su queste dichiarazioni, o da quelle sull’Iran, va fatta la tara delle posture aggressive prese a volte da Tillerson per buona creanza nei confronti dell’istituzione che occupa lo Studio Ovale. Trump invece è il titolare delle dichiarazioni più tossiche che un presidente americano abbia mai fatto negli ultimi decenni, tanto che poche settimane fa l’amministrazione statunitense s’è trovata nella surreale situazione di dover smentire di aver dichiarato guerra a Pyongyang. Dieci giorni fa il titolare di Foggy Bottom ha anche rilanciato, dalla Cina (il luogo è di per sé significativo), una notizia uscita sul Washington Post: americani e nordcoreani stanno cercando una via, difficile, per intavolare un dialogo per ammorbidire la situazione. Wasting time” è stato il commento ufficiale di Trump a una dichiarazione su una linea strategica che il suo dipartimento di Stato sta perseguendo: non perdere tempo, Rex, ha detto il presidente, quelli non capiscono il dialogo, voglio solo le botte. A memoria, mai una situazione del genere ha tagliato le intricate trame di Washington.

… E DISTANZE

Se ne cerca un altro di esempio? Che dire di quando Tillerson disse che il “il presidente parla per se stesso” a proposito della posizione presa da Trump sui fatti ci Charlottesville; quelli in cui un esaltato nazista uccise una manifestante di sinistra che stava protestando contro un corteo di suprematisti bianchi. Trump non prese una posizione chiara contro gli estremisti di destra, Tillerson – indispettito come tanti altri pezzi dell’amministrazione per il traccheggiare del presidente – si tirò fuori con quelle parole che cercavano di distanziare il governo dalla Casa Bianca.

LA LINEA DEI NORMALIZZATORI

Il 3 ottobre è successo l’inaudibile anche per i criteri alterati con cui va avanti quest’amministrazione: Tillerson ha fatto un’improvvisata davanti ai giornalisti per smentire un articolo della NBC in cui si scriveva che quest’estate lui fosse stato a un millimetro dalle dimissioni, tutto dopo l’intervento di Trump all’annuale Jamboree dei Boyscouts (erano gli inizi di agosto, Trump fece un discorso sgangherato intriso di politica che fu criticatissimo, e per l’ex presidente dei Boyscout americani Tillerson evidentemente fu la goccia che fece traboccare). A convincerlo a restare l’intervento del vice presidente Mike Pence, il capo di gabinetto John Kelly e quello del Pentagono Jim Mattis, insomma, tutto lo staff di quelli che i più informati media americani descrivevano mesi fa come il Comitato per Salvare l’America, un insieme di normalizzatori che si sarebbe dato il compito informale di fare ogni genere di sforzo, anche personale, per restare finché possibile all’interno dell’amministrazione per mantenerla il più possibile. In quella stessa occasione gli è stato chiesto da un giornalista della CNN di spiegare quanto riportato, perché si sosteneva che il segretario avesse dato pure del “moron“, imbecille o coglione, al presidente: Tillerson ha detto di non voler parlare di “certe sciocchezze”, ma non ha smentito.

L’IDEA POMPEO

Pare che da qualche tempo circoli, tra i collaboratori della linea più aggressiva trumpiana, l’idea di rimpiazzare Tillerson con l’attuale capo della Cia Mike Pompeo. Mesi fa si parlava di Nikki Haley come nuova capo del dipartimento di Stato, ma l’ambasciatrice all’Onu nonostante sia la perla della politica estera aggressiva americana e sia nelle complete grazie di Trump, imporrebbe un passaggio più ruvido: Pompeo invece fa già parte da direttore dell’intelligence della Situation Room, e dunque tutto filerebbe più liscio. Pompeo, ex congressista del Kansas, frequenta spesso la Casa Bianca (e non solo per i briefing d’intel: una delle critiche che gli vengono fatte è che passa più tempo a Washington che alla sede dell’agenzia a Langley) ed è più allineato sulle visioni del presidente, un falco rispetto alle colombe alla Tillerson. Questo farebbe sentire Trump più a suo agio, mentre sono quelle stesse colombe, come il capo dello staff Kelly, a chiedere di evitare rimpasti importanti in nome della stabilità.



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