Alla fine, come da previsioni, il presidente americano Donald Trump ha annunciato in un discorso alla nazione l’intenzione di de-certificare l’accordo sul nucleare iraniano. Il deal che prevede il congelamento del programma atomico degli ayatollah in cambio dell’eliminazione delle sanzioni correlate da parte di Stati Uniti e Unione Europa, in America ha un meccanismo di controllo interno: il Congresso vuole che ogni tre mesi il dipartimento di Stato, ossia l’amministrazione in carica, certifichi che gli iraniani stanno facendo un buon lavoro, che né l’accordo né tutto ciò che è connesso è un problema per la sicurezza nazionale statunitense.
UN REGIME FANATICO
L’amministrazione Trump per due volte ha dato semaforo verde (ad aprile e luglio), ora frena perché il presidente ha ovviamente inglobato la questione dell’accordo all’interno della revisione strategica della postura americana sull’Iran. Trump, che ha più volte detto che l’accordo è pessimo (lo fa anche perché è una legacy dell’amministrazione precedente, e dunque, come su tutto il resto, lui intende smontarla), ha detto che l’Iran è “un regime fanatico”, che finanzia i terroristi e che Teheran diffondendo “morte, distruzione e caos” ha violato i termini del deal. Tecnicamente non è così, però Trump mette nello stesso calderone il Nuke Deal in sé e i comportamenti iraniani sulla politica estera e sull’influenza regionale. Teheran per esempio sostiene ideologicamente e finanziariamente partiti/milizia mediorientali che effettivamente sono considerati organizzazioni terroristiche dagli Stati Uniti (come Hezbollah) e semina attraverso questi un caos interessato nella regione (si veda la situazione in Yemen); in questo gioco di influenza, ha anche dato sostegno clandestinamente a gruppi terroristici sunniti di cui teoricamente dovrebbe essere nemico giurato. Questo è un punto sacrosanto, e Trump appende qui la sua scelta.
LA DE-CERTIFICAZIONE
Con la de-certificazione si passa (come già successo su altri argomenti: un esempio, i Dreamers) la palla al Congresso. Ora i legislatori hanno due mesi di tempo per decidere il da farsi. Possono non far niente e mantenere lo status quo; e così la Casa Bianca avrebbe preso una posizione politica, ma di fatto l’accordo resterebbe tal quale. Possono scegliere di colpire con nuove sanzioni altri settori della Repubblica islamica; per esempio il programma balistico, o la politica delle milizie che sono sostenute clandestinamente da unità ufficiali come quelle dei Guardiani, e dunque includere apertamente questi ultimi nelle liste dei terroristi. Possono alzare nuove sanzioni sul nucleare iraniano; è la linea che più piace ai falchi, ma più rischiosa, perché potrebbe far naufragare del tutto il Nuke Deal sulla base delle reazioni iraniane. Delle tre opzioni, Trump lavora per la seconda, che potrebbe dare anche un contentino ai congressisti più aggressivi, salvando però l’accordo in generale e le sue relazioni internazionali con gli alleati.
LE REAZIONI DEGLI ALLEATI
Anche perché c’è un problema di ordine superiore, su cui la Casa Bianca non può lavorare. L’intesa è stata chiusa da un meccanismo internazionale multilaterale composto da Francia, Regno Unito, Stati Uniti, Cina, Russia e Germania – più l’Unione Europea che è parte in causa per via delle sanzioni. Tutti i membri del tavolo negoziale, che è passato alla storia come “5+1”, erano già contrari alla mossa ventilata da Trump, perché sostengono che, dal punto di vista dell’intesa atomica, l’Iran si sta comportando bene. E da lì si dovrebbe partire per negoziare anche su tutto il resto: è questo il senso profondo del comunicato congiunto uscito immediatamente dopo il discorso di Trump a firma di Theresa May, Angela Merkel ed Emmanuel Macron. Il testo, evidentemente già pronto, dice che i governi inglese, francese e tedesco sono preoccupati per le future implicazioni della decisione di Trump, che l’accordo in realtà è “pienamente” implementato da tutte le parti e che le tre capitali europee restano perfettamente in linea sul credere nel deal.
AMICI E NEMICI
Anche l’Alto rappresentate per la politica estera europea, Federica Mogherini, ha commentato negativamente la mossa di Trump, mettendo il dito sulla piaga: non è un accordo bilaterale, dice, ma un’intesa multipolare, internazionale, approvata all’unanimità dall’Onu. È un altro dei punti critici: Trump detesta i deals che non chiude “faccia a faccia”, e detesta ancor più i meccanismi globalisti, ma in questo caso (come in altri) deve farci i conti. Il JCPoA (acronimo tecnico inglese del deal) è stato firmato da altre entità oltre all’America, e non è escluso che resti in piedi anche senza Washington. L’aspetto interessante della vicenda è proprio questo: che Russia e Cina, avversari americani, prendessero posizioni contro la decisione di Trump era scontato, ma che lo facciano così apertamente i principali alleati statunitensi è una nota da registrare, sebbene attesa. In appoggio di Trump sono intervenuti Israele e Arabia Saudita, sempre più sovrapposti nel contrasto del comune nemico esistenziale, l’Iran, e partner americani nel Golfo.
(Foto: Youtube, White House Videos)