Va tutto bene. L’Italia esclusa dai campionati mondiali per suo demerito, ma anche dalla forza dei suoi avversari. La classe della Spagna e la determinazione, fino alla tigna, degli svedesi. Le lacrime di chi ha giocato e di chi, forse per errori del commissario tecnico, è rimasto inutilmente in panchina. Lo sconcerto di quei milioni di spettatori che hanno seguito, con crescente patema d’animo, la partita. E poi le inevitabili prese di posizione dei grandi capi dello sport italiano: da Giovanni Malagò a Luca Lotti. Un solo motivo conduttore, in sintonia con un comune sentire: chi ha sbagliato se ne deve andare.
Sarà così per Gian Piero Ventura, il commissario tecnico che non ha saputo condurre la battaglia. Riceverà gli 800 milioni che ancora mancano al suo appannaggio milionario. Ma anche questo è normale. Non lo è naturalmente per la povera gente, ma questa è un’altra storia. Com’è normale che Carlo Tavecchio rimanga al suo posto. Anzi abbia l’ardire di convocare il consiglio federale per illustrare un nuovo fantomatico programma in grado di risollevare dalle ceneri i destini del calcio italiano.
Quello che invece fa incazzare è che tutto avvenga nel più assoluto rispetto delle regole che sovrintendono alla complessa organizzazione della Figc. Ai suoi rapporti con il Coni e quindi, seppure indirettamente, con lo Stato italiano, per non parlare di quel mondo più vasto che ha con lo sport un legame istintivo. Se non fosse così, la stessa storia nazionale sarebbe stata diversa. All’indomani dell’attentato a Palmiro Togliatti, nel lontano 1948, l’Italia non incorse in guai maggiori grazie anche alla vittoria di Gino Bartali al Tour de France. Un avvenimento che stemperò gli animi e contribuì, dopo le vittime dei primi giorni (una decina di morti negli scontri di piazza), al successo della linea di moderazione voluta dagli stessi vertici comunisti.
Che cos’è che non va nella struttura federale? Innanzitutto uno statuto che fa del Presidente di turno un despota assoluto. Tant’è che non è prevista alcuna procedura per la sua eventuale rimozione, una volta venuto meno l’elemento fiduciario, che, in ogni organizzazione dotata di personalità giuridica, lega gli amministratori ai titolari effettivi del potere di nomina. Siano essi gli azionisti, gli stakeholder, o comunque i soggetti che, a vario titolo, operano in quel mondo. Nel caso della Figc esiste, invece, solo l’istituto delle dimissioni volontarie. Che naturalmente Carlo Tavecchio si rifiuta di seguire. Nonostante gli inviti espliciti di Giovanni Malagò e quelli più criptici, a causa di un contesto internazionale fin troppo sensibile alle possibili interferenze della politica, da parte di Luca Lotti, ministro dello sport.
Il Comitato di presidenza ha fatto finta di niente, costringendo chi aveva qualche dubbio, come il rappresentante dei calciatori, Damiano Tommasi, ad abbandonare la seduta. Vedremo cosa dirà il Consiglio federale, convocato per i prossimo lunedì. Ma è bene non farsi troppe illusioni. Non ha i poteri per censurare il Presidente. Per ottenere un suo passo indietro dovrebbe ricorrere, a norma di statuto, alle dimissioni di massa. Solo in questo caso, venuta meno la maggioranza dei componenti, si avrebbero le dimissioni automatiche del Presidente. Ipotesi possibile, ma improbabile. Il Consiglio federale è legato a doppio filo al suo Presidente. Se questo si dimette, decade l’intero Consiglio. Ed è difficile chiedere ai tacchini di festeggiare il giorno del Natale.
Si potrebbe sempre chiedere la convocazione dell’Assemblea generale, ma la procedura è lunga e farraginosa. E più passa il tempo e minori sono le possibilità di una reazione, che reca in sé una componente indubbiamente emotiva. Conclusione? Non sarà facile venire a capo di questa ingarbugliata situazione. Ci terremo, pertanto, lo scorno. Che almeno serva ad accendere un faro su una struttura giuridica, quale quella della Figc, che rappresenta un unicum nel panorama istituzionale italiano. Qualcosa che ricorda, seppure da lontano, la vecchia governance della Banca d’Italia, al tempo di Antonio Fazio, prima della riforma del 2005.
I segni di queste storture sono evidenti nei suoi equilibri finanziari. Il Coni è il principale finanziatore, con circa 47 milioni all’anno, che rappresenta il quasi il 18 per cento del totale dei trasferimenti a favore delle diverse federazioni sportive. Alle quali spettano, invece, contributi annui inferiori a 5 milioni. E’ il calcio, bellezza. E’ sorprendente, tuttavia, dover constatare che di fronte ad un esborso così consistente, il presidente del Coni non abbia alcun potere di indirizzo sulla Figc. Può tutto al più auspicare che il suo Presidente faccia un passo indietro. Le quote di tutti gli associati sono invece pari alla metà di quanto versa il Coni. O meglio versiamo noi cittadini, dal momento che i 400 milioni annui, che rappresentato la dotazione di Giovanni Malagò, è a carico, ogni anno, del bilancio dello Stato.
Soldi ben investiti: si deve subito aggiungere. Grazie alle manifestazioni sportive, hanno prodotto ricavi aggiuntivi (sponsorizzazioni, diritti TV, contributi Uefa e Fifa, ecc.) per più di 103 milioni. A fronte di un costo diretto di circa 105 milioni. Si può quindi ben dire che siamo in pieno autofinanziamento. Se non fosse per lo straripante costo dell’ingaggio del Commissario tecnico. Quegli oltre 3 milioni lordi l’anno che sebbene non incidano sugli equilibri contabili, rappresentano un’evidente stonatura. E’ ovvio che si tratti di retribuzione tipiche dello star system. Non fanno testo. Come non fanno testo alcuni cachet della Rai. Ma, in entrambi i casi, la presenza pubblica è rilevante. E come tale richiede il rispetto di determinate regole. Applicate del resto in tutti gli altri comparti.
Il problema si riproporrà con la nomina del nuovo Commissario tecnico. E non sarà facile risolverlo. Perché delle due, l’una. O il gioco del pallone diventa un business tutto privato, nel qual caso lo Stato non deve investire nemmeno un euro. Ed allora valgono le sole regole di mercato. Ma se l’ibrido deve continuare, qualche limite lo dovremmo pur porlo. Se non altro per non fornire alla Commissione europea l’occasione per ulteriori reprimende.