“La storia è un cimitero di aristocrazie”, scriveva Vilfredo Pareto. Ed il tempo s’è incaricato di dimostrare la ragionevolezza dell’assunto del fondatore della moderna sociologia italiana, che nel suo monumentale Trattato di sociologia generale ha delineato la formazione delle élite come fattore ineluttabile della vita associata e la loro “circolazione” quale evento insopprimibile del divenire storico delle comunità organizzate.
Le leggi non scritte hanno più senso di quelle vergate e tramandate: il senso della visione paretiana è nella logica della dimensione organizzativa che gli uomini, da quanto hanno scoperto la vocazione alla convivenza ed alla formazione di gruppi omogenei, hanno spontaneamente accettato. Ma le élite, o gruppi di comando, o leadership (come si dice oggi) non sempre rispondono alle esigenze del popolo. Anzi, il più delle volte, soprattutto in democrazia, questo è soggiogato dai centri di potere che guerreggiano tra di loro al fine di stabilire la supremazia. È questa “costante” che si può iscrivere sotto la dizione di “ferrea legge delle oligarchie” la cui formulazione teorica è del pensatore tedesco-italiano Roberto Michels che, per quanto contestato da Antonio Gramsci, lo stesso fondatore del Partito comunista gli dava sostanzialmente ragione individuando nelle classi dirigenti politiche (compresa la sua, si presume) un “naturale” allontanamento dalle masse. Il che vuol dire che la forza della minoranza è sempre e comunque “irresistibile”, come lucidamente sosteneva Gaetano Mosca, “di fronte ad ogni individuo della maggioranza, il quale si trova solo davanti alla totalità della minoranza organizzata; e nello stesso tempo si può dire che essa è organizzata appunto perché è minoranza”.
Se questo è il quadro – e mi pare nitidamente incontrovertibile – è assolutamente vero che dalle élite non si può prescindere, al di là delle opzioni politiche che si nutrono e che alla luce anche delle riflessioni indotte dall’evoluzione delle scienze umane appaiono sempre più desuete. Elitisti, insomma, beninteso ognuno a suo modo, tutti gli “ideologi” citati? Non c’è alcun dubbio. E basta del resto sfogliare l’essenziale antologia Élites. Le illusioni della democrazia (Gog, pp. 136, € 13), intelligentemente curata dal giovane studioso Lorenzo Vitelli, per rendersi conto che Mosca, Pareto e Michels, con l’aggiunta di Gramsci (tutt’altro che eccentrica), avevano inquadrato il problema con larghissimo anticipo sul manifestarsi della crisi della rappresentanza democratica.
Il popolo, insomma, almeno da due secoli a questa parte, è l’alibi che le classi dirigenti, non più aristocratiche nel senso proprio del termine, utilizzano per compiacere se stesse e servire potentati, soprattutto oggi, economico-finanziari e mediatici che con il “sentimento popolare” hanno ben poco da spartire. Tuttavia, come acutamente osserva Vitelli nel suo denso saggio introduttivo, le élites di ogni tempo “devono sapersi immettere nel corso degli eventi, devono saper creare e monopolizzare delle ‘formule’, dei ‘discorsi’, delle ideologie, dominare in qualche modo le istanze primordiali del popolo, che resta, in ogni caso, il suo interlocutore principale”. Insomma, se il consenso manca, in democrazia non c’è classe dirigente; ma il consenso non lo creano forse le classi dirigenti capaci di indirizzare il popolo?
È su questo interrogativo che soprattutto Pareto – molto più di Mosca che nutriva illusioni liberali, pur essendo un conservatore – ha molto riflettuto raccogliendo i frutti di un’indagine che praticamente è durata tutta la vita, oltre che nel Trattato, nel saggio I sistemi socialisti, dove si legge: “Le élite si manifestano in parecchi modi, secondo le condizioni della vita economica e sociale”. Anche nei partiti politici, avrebbe aggiunto anni dopo Michels difendendone la legittimità come fattori storici inestirpabili, tuttavia deprecando l’eccessivo culto dei leader ma si sarebbe ricreduto diventando in seguito un fervente fascista, uno degli intellettuali di punta del movimento e del regime.
Ciò che ci lasciano gli “élitisti”, come approssimativamente sono stati chiamati, è appunto la “codificazione” di un dato non eliminabile che genera conflitti e rimette sempre, anche quando non lo si crede più, la storia. Insieme a tutto ciò, è la valutazione finale che ci intriga – o dovrebbe intrigarci. Concerne la dimensione “morale” che, come insegna Carl Schmitt, non fa parte della politica e neppure della sociologia. E allora, se questo punto di vista è ritenuto valido, non ci si può che fermare alla constatazione e alla “difesa” del principio stesso, cioè a dire che nessun sistema democratico è immune dalla lotta tra le élites. La storia dirà sempre, con ragionevole ritardo, quali delle “nuove aristocrazie” hanno avuto la meglio ed hanno agito al di là del loro interesse. Ma la cronaca, nella quale siamo immersi, ci consegna un’altra incontestabile verità: l’assoluta mancanza di visione da parte delle élites dominanti ai nostri giorni che non sono “costruzioni” legittimate dal consenso democratico, per quanto fittizio possa essere, ma da invisibili lobby che si costituiscono in forma di centri di manovra allo scopo di far passare le loro “verità” come “bene comune”, utilizzando (e disprezzando) la democrazia che perciò oggi, in ogni parte del mondo, è il problema, come anni fa, ammoniva l’intellettuale francese Alain de Benoist. Ed i problemi dovrebbero essere risolti, come si sa. In qual modo oggi è difficile immaginarlo.
L’egemonizzazione dello spazio culturale, sociale e politico a cui si riferiva Gramsci, non sembra alla portata. L’alta finanza, il capitalismo globalista, perfino il comunismo tecnocratico (Xi Jinping è un vero genio!), il neo-colonialismo umanitario di fronte alle decadenti democrazie occidentali hanno partita facile. La rigenerazione di altre élites presuppone complessi di riferimento dai quali possano prodursi e ristabilire una corretta “circolazione”, come Pareto la intendeva. Utopia? E sia. Probabilmente i nuovi conflitti planetari offriranno “spazi” che ancora non si vedono o che forse appena si intuiscono.