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Il Pil, la lettera di Bruxelles e gli effetti mortiferi del Fiscal compact

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Alla fine la strategia di Quinto Fabio Massimo, il temporeggiatore, non ha prodotto i risultati sperati. Nonostante la continua interlocuzione con la Commissione europea, Pier Carlo Padoan non ha convinto i tetragoni guardiani del bilancio, come dimostra la lettera fatta recapitare a Via XX settembre. Al governo che verrà, il compito di trovare 3,5 miliardi per coprire un presunto buco negli equilibri di finanza pubblica. La strategia del ministro dell’Economia era stata quella della contestazione dell’algoritmo. Quella procedura bizantina del calcolo del deficit strutturale, partendo da una diversa valutazione output gap. Vale a dire della distanza che divide lo sviluppo possibile rispetto ai limiti imposti da una non brillante congiuntura. Il risultato di questo confronto è stato uno 0,2 per cento di eccesso nel calcolo della flessibilità possibile: concessa dopo un lungo periodo di faticose trattative. Ad inasprire il confronto è stata anche una valutazione non positiva, da parte della Commissione europea, dei contenuti della legge di bilancio in discussione al Senato. Troppe voci di spesa, con un importo minimo che reca il segno dell’imminente campagna elettorale. Troppe le richieste – a partire dal tema delle pensioni – che rischiano di alterare il profilo di medio periodo della sostenibilità della spesa previdenziale.

Cosa dovrà fare allora il prossimo governo? Forse è giunto il momento di giocare una partita diversa. Uscire dall’angolo delle semplici divergenze statistiche e prendere il toro per le corna. Aprire una discussione sui meriti (pochi) e demeriti (tanti) proprio del Fiscal compact. Si tratta del resto di una riflessione, per molti versi, obbligata alla luce del Trattato istitutivo. Il quale prevedeva, appunto, (articolo 16) “una valutazione dell’esperienza maturata in sede di attuazione” prima di procedere al suo definitivo inserimento nell’ordinamento europeo. Il che non significa buttare il bambino con l’acqua sporca.

La politica di bilancio è una componente importante della politica economica. Ma non è una “variabile indipendente”. Quando non si è tenuto conto di questo elemento, come durante gli anni ’70 (tesi di Luciano Lama sui salari), i risultati sono stati devastanti. Il suo contenuto va quindi valutato alla luce degli altri andamenti della congiuntura. Se si è di fronte ad una piena utilizzazione dei fattori produttivi, allora il pareggio di bilancio è obbligato. In questo caso l’eccesso di spesa pubblica non produce ricchezza aggiuntiva, ma solo inflazione e deficit della bilancia dei pagamenti. E’ il caso della Francia: da anni in procedura d’infrazione, a causa di un deficit superiore al 3 per cento e con un deficit sistematico delle partite correnti della bilancia dei pagamenti.

Ma il caso dell’Italia è completamente diverso. I parametri di Maastricht sono stati sempre rispettati, salvo gli anni della grande crisi. Il suo attivo valutario è invece ben più consistente: fermo da anni ad oltre il 2 per cento del Pil, mentre il suo tasso di sviluppo complessivo, nonostante i miglioramenti recenti, si colloca agli ultimi posti della classifica europea. Nel frattempo il suo potenziale produttivo si è enormemente ridotto. L’industria ha perso circa il 25 per cento del suo valore aggiunto. L’edilizia, da sempre il volano dell’economia italiana, vive da tempo una crisi senza prospettive. Le banche, a loro volta, ne hanno subito i contraccolpi più severi. Il peso dei non performing loans – ossia delle sofferenze – è in larga misura attribuibile alla catena dei fallimenti intervenuti ed alla caduta del valore delle garanzie reali, determinata dal minor valore degli immobili.

Tutto ciò ha determinato il forte tasso di disoccupazione, che ben conosciamo, ed un eccesso di capacità produttiva inutilizzata, che frena gli ulteriori investimenti. La loro leggera ripresa, in questi ultimi mesi, è solo dovuta alle imprese che esportano all’estero. Quelle che producono per il mercato interno, invece, subiscono il forte contenimento dell’asfittica domanda interna. Tutto ciò ha forse contribuito a contenere il rapporto debito-Pil? Al contrario. Esso è cresciuto soprattutto durante il periodo della lunga depressione. Vale a dire nel periodo che va 2011 al 2013 quando è aumentato di ben 13 punti in soli due anni, a causa della svolta deflazionistica determinata dalle politiche del governo Monti. Nel 2008 il salto era stato di 10 punti, ma all’origine di quel piccolo disastro era stata la grande crisi che aveva accumulato l’Italia al resto dell’Occidente.

Se si tiene conto del quadro complessivo, è facile vedere come il Fiscal compact debba essere temperato, prendendo in considerazione tutti gli elementi del puzzle. Può essere giustificato in alcuni casi, ma destinato ad avere effetti mortiferi in altri. Come nel caso dell’Italia. E’ possibile discutere con serietà di queste contraddizioni a livello europeo? Oppure dobbiamo subire il diktat dell’ortodossia? Non è più il tempo. La crescita dei movimenti populisti, nei vari Paesi, non è la farina del diavolo. Riflette, al contrario, quell’offuscamento della ragione che è l’anticamera dell’inevitabile dannazione.

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