Fra Turchia e Stati Uniti non c’è mai stata così tanta maretta, e, anche questa volta, il Presidente della Repubblica turca, Recep Tayyip Erdoğan, sta cercando di fare ricadere la colpa su Fethullah Gülen, l’ex imam a capo di un’importante ala della destra islamica turca, un tempo alleato di dell’allora premier di Ankara, e oggi il suo maggiore nemico, accusato di essere anche il mandate del golpe fallito del luglio 2016. Questa volta la questione è molto più seria e rischia di fare dormire sonni poco tranquilli al presidente Erdoğan.
Tutta questa vicenda, che ha i contorni dell’intrigo internazionale, risale a molti anni fa, quando Reza Zarrab, per anni a diretto contatto con il cerchio magico del Presidente Erdoğan, faceva affari d’oro in quella Turchia che a parole era ancora un partner fedele dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, ma che, già allora, faceva quello che voleva. Erano gli anni dell’Iran di Mahmud Ahmadinejad, ancora piagato dalle sanzioni.
Nel marzo scorso, Zarrab è stato arrestato a Miami, e, dopo essersi dichiarato colpevole nel processo che lo vede imputato per riciclaggio, visto che la sua posizione è già abbastanza compromessa, ha deciso di collaborare con le autorità statunitensi e a rivelare quello che già durante l’amministrazione Obama si era ampiamente intuito. La Turchia, per anni, ha portato avanti una gigantesca macchina di scambi illegali, con Ankara che comprava gas naturale, pagandolo in oro. Il metallo, veniva poi piazzato dalla Repubblica Islamica a Dubai, ricavandone cifre molto elevate. Gli Usa avevano iniziato a sospettare che qualcosa non andasse anche nel 2012, quando le esportazioni da Turchia a Iran di oro erano aumentate dell’800%. A Washington la situazione non faceva piacere, ma nel bel mezzo della crisi siriana e con il Medioriente in ridiscussione, si era preferito non intervenire troppo a gamba tesa, nella speranza che Ankara si riconducesse a più miti consigli. Speranza vana, se si pensa alle accuse infamanti, arrivati negli anni successivi, di aver collaborato con lo Stato Islamico.
Da quando Zarrab ha fatto capire che era disposto a parlare, il presidente della Repubblica turca ha iniziato a preoccuparsi. Nei giorni scorsi, poi, sono arrivate dichiarazioni bomba, secondo le quali non solo fra Turchia e Iran c’era in piedi una colossale macchina di scambi illegali e riciclaggio. Qualcuno ne ha ricavato somme di denaro ingenti. Zarrab ha detto di aver consegnato all’allora ministro dell’Economia, Zafer Caglayan, 50 milioni di dollari. Nei corridoi del potere di Ankara, non sono bei momenti. Erdoğan ha vinto il referendum costituzionale, che gli affida poteri illimitati, ma gli emendamenti più importanti alla Costituzione entreranno in effetti il prossimo 2019, dopo le nuove elezioni politiche. Con il Capo dello Stato che dovrà anche farsi rieleggere nello stesso anno. Il mese di dicembre, poi, porta piuttosto male al leader islamico-moderato che, già nello stesso mese del 2013, vide il suo potere traballare a causa di uno scandalo di corruzione ribattezzato “Tangentopoli a la Turka”.
Il presidente della Repubblica, da settembre ha chiamato Trump almeno tre volte, per discutere del tema. Durante un comizio, ha detto che, se qualcuno dimostrerà che ha depositato soldi all’estero, è pronto ad andarsene. La magistratura turca, sulla quale, dopo il golpe fallito e le purghe di Erdoğan, pesano seri dubbi quanto a indipendenza, ha congelato tutti i beni dell’affarista iraniano. La magistratura americana è sotto attacco dei media filo governativi. Dicono che dietro a tutta questa operazione c’è Fethullah Gülen, che risiede negli Usa da molti anni. L’ultimo gesto di rappresaglia, in ordine di tempo, da parte di Ankara è aver messo sotto accusa per terrorismo e golpismo l’ex agente della Cia, Graham Fuller. Viene logico pensare che questo irrigidimento Usa sia anche dovuto all’asse sempre più allineato che la Turchia sta instaurando con la Russia. Il presidente Erdoğan ha sempre voluto agire sullo scacchiere internazionale alle sue condizioni. Non si rende conto che è comunque condizionato da Mosca e che Washington ha ancora i mezzi per fargli pagare il voltafaccia.