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Il ‘68 di cui avremmo bisogno oggi. Parla Paolo Mieli

Paolo Mieli Sessantotto

Paolo Mieli è un giornalista, uno storico, un pensatore fra i più influenti in Italia. Lo abbiamo incontrato per chiedergli di rileggere con noi i fatti del 1968. Cinquanta anni dopo è tempo di bilanci.

Condivide l’interpretazione di “tradimento” dei movimenti? Molti dei leader extraparlamentari di quel tempo sono divenuti emblema di quello stesso ordine che volevano abbattere…

Condivido questa riflessione, ma ritengo che si tratti di un fatto fisiologico. Eravamo giovani, con idee e propositi che, in cuor nostro, sapevamo essere utopistici. Non abbiamo mai pensato di poter davvero prendere il potere e guidare il Paese. Il tratto più importante del Sessantotto è stato la sua portata critica, sia contro lo Stato borghese, sia contro le organizzazioni della sinistra. Credo che quella capacità critica sia rimasta. Il Sessantotto, poi, ci insegnò molto anche sotto il profilo umano; imparammo a convivere – e a diventare amici – con persone che la pensavano diversamente da noi, di natura e di provenienza sociale differenti. Molti di quelli che hanno partecipato al Sessantotto hanno poi cercato di nascondere il proprio passato, ma non io: si sono ripresentati come liberali o uomini d’ordine, hanno truccato le carte, hanno raccontato le cose così come non erano. Ma c’è un momento in cui si cambia radicalmente e occorre avere l’onestà intellettuale di riconoscerlo.

Che effetto le fa immaginare che nel 2018, mezzo secolo dopo il Sessantotto, Berlusconi possa ancora vincere le elezioni? Siamo passati dalla rivoluzione alla reazione?

Non considero l’esperienza di Berlusconi una reazione. Non credo, nonostante né Berlusconi né il suo entourage abbiano mai rappresentato la mia posizione politica, che tutto quello che c’è stato nel ventennio cosiddetto berlusconiano sia stato negativo. E dico “cosiddetto” non a caso. In questo ventennio, Berlusconi è stato al governo solo nove anni contro gli undici dei suoi oppositori. Non ritengo sia giusto, quindi, contrabbandare come ventennio berlusconiano un periodo che ha visto una stabile alternanza, salutare per la politica italiana, tra lui e i suoi oppositori. Tornando al Sessantotto, credo che la stagione berlusconiana sia stata un esperimento importante con pro e contro. Non mi stupisce che alcuni reduci del ‘68 siano finiti tra le personalità di Berlusconi, così come non mi sembra un segnale allarmante il fatto che Berlusconi si ripresenti alle elezioni, peraltro senza alcuna chance di tornare al governo.

La sinistra italiana è finita per sempre? La crisi di questi ultimi anni si può dire che inizi nel Sessantotto?

Non so se la sinistra italiana sia finita per sempre, ma di certo la sinistra europea e mondiale attraversano una grave crisi, in parte nata proprio nel Sessantotto, quando è esploso nella sinistra un delirio universalistico nei confronti di chiunque, ma proprio chiunque, si trovasse in una condizione di reale o presunta oppressione. Bisogna, poi, tenere conto di altre due elementi che hanno caratterizzato la sinistra. Uno è la propensione all’anti. A un certo punto, la sinistra si è unificata contro il leader del momento. Ho passato quasi settant’anni della mia vita da persona di sinistra con una sorta di demone da abbattere dall’altra parte, una volta mandato dalla mafia, un’altra dalla massoneria, poi dai Servizi segreti deviati o da Gladio. Prendiamo, per esempio, uno di questi presunti demoni: Cossiga. Nel 1991 fu denunciato dalla sinistra con un empeachment. Nel 1998, però, siccome aveva contribuito a raccogliere i voti per portare al governo D’Alema, fu portato in trionfo alla Festa dell’Unità. Ecco, ritengo un po’ troppo rapido il processo per cui, nel giro di appena sette anni, per la sinistra si passi dall’essere un demone all’essere un santo. L’estrema mutevolezza nei giudizi, che è spesso scaduta nel ridicolo, insieme a tutti gli altri fattori, ha contribuito sicuramente alla crisi della sinistra italiana.

Per concludere, cosa resta del ‘68 oggi?

Resta il ricordo di quello che veramente fu, un momento in cui le persone potevano ribellarsi, disobbedire, essere irriverenti e libere. Ovviamente, anche prima del Sessantotto i giovani si ribellavano, ma in quella precisa fase la ribellione divenne un fatto universalmente accettato, una gomitata nello stomaco a chi riteneva che, tutto sommato, da giovani si è ribelli, ma poi ci si integra nel sistema. In ultimo, il ‘68 diede l’occasione a migliaia di persone di entrare prepotentemente nel mondo del lavoro. Se, fino ad allora, solo i figli di papà potevano accedere a determinati lavori, dal 1968 non fu più così. Oggi, forse, ci vorrebbe un altro Sessantotto, ma non uno che si limiti a scimmiottare quello del 1968, com’è sempre avvenuto sino ad oggi. Il Sessantotto non era una manifestazione, occasionale; il Sessantotto fu vero e andò fino in fondo; dotato di una fortissima energia e di una grande spinta propulsiva. Purtroppo, mai nessuno si pose il problema di costruire un disegno sistemico per portare a termine il progetto. È stato questo il vero limite del ‘68, condiviso, peraltro, con le generazioni successive.

 (Articolo pubblicato sulla rivista Formiche n. 132)



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