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Gómez Dávila, il “Nietzsche colombiano” diventato autore di culto. Pubblicati in Italia gli “Escolios”

Nicolás Gómez Dávila, (1913-1994, in foto), “conquista” la scena culturale occidentale dopo una lunga attesa dovuta ai soliti pregiudizi culturali “progressisti” gravati sulla sua opera per palati raffinatissimi ed esigenti. In Italia si è cominciato a parlare di lui, colombiano di Bogotà dove ha vissuto quasi tutta la vita nella sua casa-biblioteca, alla fine degli anni Novanta del secolo scorso grazie a Giovanni Cantoni con i suoi saggi sulle riviste “Cristianità” e “Percorsi”. Poi, il compianto Franco Volpi, che ha contribuito decisamente alla sua rivalutazione nello stesso continente latino-americano, ha pubblicato per Adelphi due antologie dei suoi scritti e Gómez Dávila ha ottenuto una notorietà che ha sorpreso molti che ne ignoravano perfino l’esistenza. Non solo si è “guadagnato” lo spazio che meritava, ma si è imposto all’ammirazione perfino di chi non ne condivideva gli assunti filosofici. Oggi concordemente si ammette che Gómez Dávila è uno dei più grandi pensatori del Ventesimo secolo i cui scritti aforistici sono una stringente critica alla modernità ed all’egualitarismo, al relativismo e al materialismo pratico.

La sua opera più importante ed imponente, “Escolios” a un testo implicito, in cinque volumi, vede ora la luce integralmente in lingua  italiana pubblicata dalle edizioni Gog, intelligentemente dirette dal giovane Lorenzo Vitelli. Gabriele Zuppa e Antonio Lombardi, che dopo il lavoro svolto da Cantoni e Volpi possono essere considerati i maggiori interpreti e divulgatori dell’opera di Gómez Dávila nel nostro Paese, hanno curato l’introduzione il primo e la postfazione il secondo gettando con i loro scritti nuova luce sull’opera dell’intellettuale colombiano e favorendo una sua più approfondita conoscenza.

Il primo volume degli “Escolios”(pp.44o, €15,00), tradotto magnificamente da Loris Pasinato, reca la prefazione di Gennaro Malgieri, significativamente intitolata Un reazionario contro il pensiero unico” nella quale si dà conto, tra l’altro della fortuna e della ricezione in Europa dell’opera di Gómez Dávila, oltre che di aspetti poco conosciuti della sua “vita nascosta”. Della prefazione di Malgieri, nostro collaboratore, pubblichiamo alcuni stralci.

I folgoranti pensieri di Nicolás Gómez Dávila illuminano la verità nascosta negli anfratti più oscuri della modernità e danno luogo a un ripensamento della storia dopo le catastrofi originate dalla Riforma luterana, dal razionalismo agnostico, dall’Illuminismo totalizzante. Essi sono, sul sentiero tracciato da Platone, Nietzsche e Heidegger, le indicazioni verso l’approdo di una salvezza individuale possibile, non essendo prevedibile l’evoluzione del declino complessivo dell’umanità. Ed in quanto ermeneutici, prescrittivi fino all’insolenza, assertivi ed elegantemente paradossali, i pensieri del colombiano sono davvero “per tutti e per nessuno”. “Escolios” ha definito i suoi scritti rapsodici: glosse, per essere chiari, non ad un trattato definito, ma ad un testo che non c’è – un “testo implicito”, appunto – con le quali si può, quasi fossero variopinti mattoni, costruire un edificio teorico, una filosofia morale o addirittura, forse, qualcosa di più ambizioso: un manuale  spirituale nel tempo del trionfo dell’empietà e della retorica egualitaria offesa alla dignità dell’uomo e al Creato. Il tempo, cioè, nel quale tutte le gerarchie valoriali sono saltate ed anche Dio è stato “addomesticato” da chi dovrebbe rivendicarlo come principio e fine di tutte le cose.

davilaGómez Dávila ha tracciato un percorso verso la riscoperta della verità con un linguaggio essenziale, ma non frammentario piuttosto unitario e coerente, conseguente, insomma, come si conviene ad un mistico, ad un asceta, ad una sorta di certosino che parla poco ed ama molto ascoltare (era un tratto che incuriosiva i suoi interlocutori ammirati). Ha evitato di formulare un corpus dottrinario procedendo secondo l’antica prassi ellittica, propria della classicità, con la sobrietà che gli era propria, trasfusa nello stile letterario al solo scopo di ordinare i piani di una “visione del mondo” per la storia che verrà: “Non dobbiamo pensare per il nostro tempo o contro il nostro tempo, ma fuori del nostro tempo. E se fosse impossibile, che importa? E’ innanzitutto una esigenza di principio e una ragione di metodo”.

Che Gómez Dávila sia stato anche “esteticamente” al di là del tempo ormai non è più un mistero, né materia per dispute filosofiche o esistenziali. Sostanzialmente autore di un solo libro – la monumentale raccolta degli Escolios (i pochi altri, precedenti o successivi, sono stati per così dire di “contorno”), il cui primo volume per la prima volta in traduzione italiana qui si propone, integralmente, al quale seguiranno gli altri -,  lo scrittore non aveva di vista il successo, la grande notorietà, l’affermazione letteraria e accademica, l’ambizione di diventare un maestro o una guida spirituale, men che mai “politica”. Aspirava semplicemente a far arrivare la sua voce oltre le mura della megalopoli intellettuale saccente e corrotta dalla prassi, popolata da mediocri chierici del democratismo totalitario. Già nelle Notas, prime prove della sua capacità di sintesi  nelle quali dava conto dei “colloqui” che fin dalla giovinezza aveva intrecciato con gli Immortali, pagani e cristiani, per rinvenire e smascherare le aporie della modernità e scarnificarle fino a demitizzarle ed annichilirle con una logica ora tagliente ora corrosiva, rivelava il suo chiaro obiettivo: “Non è un’opera ciò che intendo lasciare. Le uniche che mi interessano si trovano a una distanza infinita dalle mie mani. Vorrei però lasciare un libriccino che, di tanto in tanto, qualcuno apra. Un’ombra tenue che seduca poche persone. Sì! Affinché una voce inconfondibile e pura attraversi il tempo!”(…).

La connessione, come la storia del pensiero e le vicende politiche soprattutto della seconda metà del Novecento si sono incaricate di dimostrare (“Il Ventesimo secolo è un naufragio che non ha fine”), è tutt’altro che arbitraria, lontana dai pregiudizi ideologici o da sedimentate idiosincrasie intellettuali. La diagnosi, dispiegata in tutta la sua opera da Gómez Dávila è il frutto di una maturazione che dagli anni della prima giovinezza è andata consolidandosi nella sua coscienza con il concorso di una cultura immensa, profonda, che ha contribuito a trasformarlo nel “solitario di Dio”, come pure è stato definito, che tuttavia si è immerso nella contemporaneità senza lasciarsi sopraffare da fattori che potessero distoglierlo dalla sua assorbente riflessione sulla decadenza dovuta all’esplosivo dominio dei vizi della modernità e della secolarizzazione che ha travolto le società affluenti.

Il liberalismo e il marxismo hanno determinato – con i corollari dell’etica relativista della quale si sono serviti per scardinare l’ordine naturale – la progresssiva “perdita del Centro”, della quale parlava Hans Sedlmayr riferendosi  principalmente all’arte come espressione del degrado e della decadenza spirituale, ed arrecato un incommensurabile danno  alla ragione oltre che allo spirito provocando la  dissoluzione del principio gerarchico e, dunque, favorendo il dominio dell’egualitarismo abilmente strumentalizzato dalle èlites economico- finanziarie  impadronitesi del potere politico nullificato dal totalitarismo globalista:“La passione egualitaria è una perversione del senso critico: atrofia della facoltà di distinguere”.

Nello stesso tempo, la nuova antropologia insediatasi alla guida dei processi di trasformazione dei quali agli inizi degli anni Cinquanta Gómez Dávila era più che consapevole, ha operato la “disumanizzazione” delle comunità organiche al cui interno è cresciuta la “religione democratica” poi penetrata, con grande disappunto del pensatore colombiano, perfino nella Chiesa cattolica della quale si è sempre professato figlio fedele.

L’approdo nichilista soprattutto dell’Occidente, “suicidatosi” per smarrimento e viltà, non è tuttavia irreversibile per Gómez Dávila, che a differenza dell’amato Nietzsche e di Emil Cioran, rilancia nelle sue pur amarissime “glosse” alla modernità disfatta sfide di speranza connesse ad una redenzione (per quanto dal pensatore mai esplicitata pienamente – implicita, dunque – forse per non apparire un “profeta”…) che può passare soltanto attraverso la messa in discussione della negazione di Dio e la ripresa dell’ordine naturale delle cose, rimettendo in movimento quell’antropologia che non è semplicemente “pagana” o “cristiana”, ma è la sintesi dell’una e dell’altra se la si sa correttamente interpretare alla luce del diritto naturale, principio di ogni cosa come, in un lungo brano dedicato all’origine del mondo, in Textos I, Gómez Dávila ha ampiamente dimostrato (…).

E, dunque, è da Dio che si deve ripartire. “La morte di Dio è una falsa notizia messa in giro dal diavolo che mente sapendo di mentire”, osserva sarcasticamente lo scrittore. Ma non basta essere “cristiani” per poter attingere alla verità: “Non è sufficiente un’apologetica del cristianesimo. Neppure un’apologetica della religione. Oggi si ha bisogno di un’introduzione metodica a quella visione del mondo all’infuori della quale il vocabolario religioso è privo di senso. Non parliamo di Dio a chi non ritiene plausibile che si parli degli dèi”. E per il semplice motivo che “né il cristianesimo né il paganesimo insegnano etiche altruiste”. Tanto la morale dell’uno quanto la morale dell’altro “sono individualismi etici che impongono doveri sociali solo come strumenti della nostra perfezione terrena o della nostra enigmatica salvezza”.

“Essere reazionario – sostiene – significa voler estirpare dall’anima perfino le ramificazioni più remote della promessa del serpente”, oltre a che “a capire che l’uomo è un problema senza soluzione umana”. Per cui il ristabilimento del diritto naturale passa attraverso la consapevolezza “reazionaria” di agire per distruggere ciò che si è impossessato dell’anima del mondo attraverso  la  teologia materialista che ha finito per instaurare il totalizzante universo informato al materialismo pratico che offre l’opportunità ai popoli di autoannientarsi nel disinvolto naufragio delle loro identità (…).


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