Seconda parte della conversazione di Formiche.net con Salvatore Martinez in occasione del National Prayer Breakfast a Washington DC
La crisi dell’Europa e delle istituzioni europee può essere considerata come una crisi dei valori di cristianità che hanno ispirato il processo di integrazione?
Direi proprio di sì. L’Europa è come paralizzata da una “crisi cardiocircolatoria”; non sembra che scorra più quella linfa spirituale che ha irrorato il cammino delle Nazioni che la compongono, assegnandole primazia sul piano morale e del progresso umano. È sempre primariamente esistita, e mai come oggi è trascurata, un’Europa dello spirito, che è l’Europa delle culture, dei popoli e delle identità religiose. È quella l’Europa che a partire dal Mediterraneo ha fatto grande la storia del mondo, prima che il centro propulsivo si spostasse in un altro mare, l’Atlantico. La storia è fatta di ricorsi e molti si ostinano a ignorare che la rotta si è invertita; la crisi antropologica in atto, fondata sul primato dei mercati che asservono l’uomo, riporta il vero baricentro di uno sviluppo umano integrale nel Mediterraneo, ponendo nuove, epocali sfide e opportunità. Basti anche solo guardare al tema dei migranti per afferrarne il senso: non possiamo fermarci al problema dei popoli che fuggono dalle guerre e dalla povertà; dovremmo chiederci cosa le nazioni europee stanno facendo per evitare, ad esempio, la “cinesizzazione” del tessuto sociale africano. C’è un’enorme questione politica aperta: parliamo di un continente che è affidato alla nostra responsabilità, un continente del quale l’Europa non può fare a meno. Un continente come l’Europa dimentico delle proprie origini, della propria grandezza, delle proprie virtù e peculiarità, non può vedere il futuro, né generarlo. L’Europa dei nostri giorni è stanca, invecchiata, ha bisogno di energie spirituali, perisce per mancanza di visione e di coraggio identitario.
Come possiamo ritrovare l’unità delle origini?
L’Europa di oggi è un’Europa divisa e coabitante. Abbiamo almeno tre macro-regioni che convivono insieme: un’Europa continentale, evangelica e luterana; un’Europa dell’est, ortodossa e musulmana al tempo stesso, e un’Europa mediterranea a tradizione cattolica. Il problema dell’integrazione e del rispetto delle libertà religiose, per non produrre forme sempre più frequenti di auto discriminazione, non nasce solo dalla difficoltà di conciliazione e di armonizzazione delle differenze senza principi valoriali unificatori, ma dal fatto che gli elementi di distinzione e al fine divisivi, si fanno sempre più schiaccianti. Occorre ribadire che se si vuole stabilizzare la vita delle comunità religiose, al fine di evitare la loro conflittualità, è necessario prima partire dai diritti umani ed eliminare tutti gli elementi persistenti di ingiustizia e disparità. Purtroppo si procede all’inverso e questo finisce con il determinare una “politicizzazione delle religioni” che indebolisce la loro credibilità agli occhi della gente, soprattutto delle nuove giovani sempre più disinteressati a questi temi. Riagganciandoci a questa linea di pensiero, nell’ambito della Presidenza Italiana all’Osce, lavoreremo con grande slancio per trovare il consenso dei 57 Paesi che compongono l’Organizzazione.
Qual è il ruolo che l’Italia può assumere in questo scenario?
Sul fronte della politica estera l’Italia ha sempre giocato un ruolo importante, che le viene pienamente riconosciuto. Ero a Vienna in occasione dell’inaugurazione della Presidenza italiana Osce 2018 e ho ascoltato parole di grande apprezzamento da parte delle rappresentanze diplomatiche intervenute, a fronte di sfide assai impegnative che dovranno essere affrontate sui temi della sicurezza e della cooperazione. L’Osce, in particolare, lavora su tre dimensioni. A me è affidata la rappresentanza speciale nelle Dimensione 3 “Diritti umani” con speciale focus al tema dell’intolleranza, del razzismo, della xenofobia, della discriminazione. A ben vedere, sono parole sempre più sinonime, che attengono al bisogno di preservare la dignità inalienabile dell’uomo, sempre integrale e trascendente. Bisogna registrare, tra l’altro, che i Paesi dell’est europeo trovano intorno al tema delle discriminazioni dei cristiani e dei musulmani un forte motivo di supporto verso l’impegno italiano. L’est europeo vive in modo stringente la questione. E come abbiamo già affermato, anche gli Usa guardano con attenzione a tutte le questioni politiche connesse al tema. Dunque è possibile ricercare la via del dialogo e del confronto, con attori internazionali come Russia e Stati Uniti i cui rapporti, allo stato, non sono certamente tra i migliori. Non possiamo poi non guardare all’Europa mediterranea come epicentro di un nuovo rinascimento culturale e spirituale per il ruolo centrale giocato dall’Italia sia da un punto di vista storico che geografico. Lavoreremo con un duplice intento di discontinuità, “generazionale” e “sociale”, per una nuova attorialità: vogliamo investire sui migliori giovani per la costruzione di nuovi modelli di leadership interculturale e interreligiosa adeguati alle sfide del tempo e insistere sulla società civile, perchè politica e religione da sole non sono sufficienti a governare la complessità vigente. Oggi vince chi sa districarsi dentro la complessità senza subirla, per asseverare veri processi di pace tra i popoli e di sicurezza per i popoli.
In che modo si traduce questo impegno nella quotidianità?
A partire dalle buone prassi. Oggi viviamo un serio problema di policy e le buone pratiche sono indispensabili per regolare la vita di tutti i giorni e per ridare alla nostra gente la percezione che i processi in atto nella vita delle nostre comunità possono evolversi positivamente. Bisogna impegnarsi per abbattere ogni tipo di discriminazione, a partire da quella religiosa. Una conseguenza di questo “ritardo” è il fenomeno della radicalizzazione in Europa. Nella maggior parte delle storie che conosciamo abbiamo visto che ad essersi radicalizzati sono dei ragazzi, giovissimi in alcuni casi. È il segno di un vuoto, di un deficit che va colmato. Quante volte abbiamo sentito frasi del tipo “conoscevo quel ragazzo, era il mio vicino di casa, una brava persona”. Ciò dimostra che nella quotidianità si può anche convivere, ma se si trascurano le cause dell’esclusione sociale, della discriminazione ghetizzante nelle periferie urbane, allora prima o poi le situazioni degenereranno in forme di violenza organizzata e assumono la controversa e falsa connotazione di “crimine religioso”.
L’Italia ha saputo assicurare fino ad oggi la diversità sociale e la sicurezza dei cittadini?
L’Italia ha saputo svolgere un ruolo di supplenza in Europa e anche di proposta forte. C’è una indiscussa capacità della nostra intelligence che ha evitato attentati pur accaduti in altri Paesi occidentali. Accanto al fondamentale ruolo dei servizi di sicurezza l’Italia si posiziona con una società civile fortemente operosa: si pensi al ruolo delle associazioni e dei movimenti, di organizzazioni civili ed ecclesiali che incidono significativamente nella tenuta dello “stato sociale”, un’intera area “pre-politica” di forte ispirazione ideale che riesce a compensare il deficit economico vigente attraverso la cultura del dono, della gratuità, della solidarietà. Ciò ridimensiona fortemente le disparità sociali, le forme di emarginazione e di conflittualità.
C’è dunque speranza di superare la crisi umana e spirituale del nostro tempo?
Personalmente, il mio impegno è mosso non dall’ottimismo ma dal “realismo della speranza”. È il realismo dei poveri, degli ultimi, di coloro che non hanno molto da perdere e quindi non possono disperare. Sono, al contrario, gli ultimi che ci insegnano a sperare, come scriveva Bernanos nel suo Diario di un curato di campagna. Mi ritengo felice di vedere la storia con gli occhi di coloro che ogni giorno devono industriarsi e trovare soluzioni, senza aspettare che altri diano risposta alle grandi domande della vita.
L’Italia è il centro del Mediterraneo e la casa del Santo Padre. Quale peso assume il dinamismo e la forza dirompente dell’impegno di Papa Francesco verso la comunità internazionale?
Papa Francesco sa guardare al mondo coniugando “idealismo e realismo” in modo straordinario. La sua aderenza alla realtà e la volontà di servirla dal “basso”, rendono universale, comprensibile a tutti e ammirevole il suo messaggio e la sua testimonianza. Il suo modo di leggere la contemporaneità, anche tra i non credenti, i più lontani, è certamente tra i più apprezzati. La sua capacità di porsi in dialogo con tutti, senza paura di perdersi, piuttosto di guadagnare l’altro, è rivoluzionaria. Più che il papa della chiesa cattolica molti lo percepiscono come il papa dell’umanità intera. La sua disponibilità all’ascolto à davvero ispirante. Tornando proprio al National Prayer Breakfast, ho avuto nel 2014 la gioia di far incontrare a Roma l’iniziatore di questo evento, Doug Coe, morto nel 2017 a 87 anni, con papa Francesco, in udienza privata. Nell’anno successivo, in occasione del Npb, papa Francesco volle inviare una lunga lettera autografa, firmandosi Francis e non Franciscus, come fa tradizionalmente. Mai un papa prima di lui, direttamente o indirettamente, era entrato al Npb registrando un altissimo consenso. La leadership che ispira il Prayer Breakfast si fonda su un messaggio pre-confessionale che consente alle varie confessioni di abbracciarne il senso autenticamente umano, prima che divino. Il cristianesimo è e rimane questo: un umanesimo umanizzante che produce salvezza dal male. Se il novecento è stato il secolo della solidarietà, quello che stiamo vivendo dovrà essere il secolo della fraternità, un concetto assai più ampio, forte, perchè supera le distinzioni, annulla le distanze. Un programma che papa Francesco sta interpretando con ogni sforzo.